Inizia alla fine dell’ottobre 2009, si ripete nel 2014 e nel 2015, e si protrae fino ai nostri giorni, la lunga serie di azioni volte a depistare e insabbiare quanto accadde la sera del 15 ottobre 2009 nella caserma Casilina di Roma, dove Stefano Cucchi venne accompagnato dai tre carabinieri della stazione Appia che lo avevano arrestato (Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, accusati di omicidio preterintenzionale nel processo bis), per l’obbligo del fotosegnalamento.

L’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi

Caserma dalla quale invece il geometra 31enne – ex tossicodipendente ma in buono stato di salute, palestrato e praticante di boxe, anche se di bassa statura, esile di costituzione e magrissimo – ne uscì non fotosegnalato (il registro venne sbianchettato), ma con la colonna vertebrale fratturata in due punti e con un trauma cranico che gli costarono la vita, sette giorni dopo.

Soprattutto quel filo nero del depistaggio si dipana dal piantone al graduato, stando a quanto avrebbero ricostruito il procuratore capo Giuseppe Pignatone e il pm Giovanni Musarò che ieri hanno notificato l’atto di chiusura di indagini a otto militari, che ora rischiano il processo. Un filo nero che risale tutta una catena gerarchica, fino all’allora comandante del Gruppo Roma, Alessandro Casarsa, che nel frattempo è diventato generale ed ha rivestito fino al 10 gennaio scorso l’importante ruolo di comandante dei Corazzieri del Quirinale. Casarsa, chiamato come testimone al processo bis, ha preferito non rispondere.

PROPRIO DA LUI, asserisce la procura, sarebbe partita la catena di comandi che ha permesso la falsificazione di una nota di servizio, post-datata 26 ottobre 2009, sullo stato di salute di Stefano Cucchi. Motivo per il quale Casarsa è accusato di falso ideologico, insieme al colonnello Francesco Cavallo (all’epoca dei fatti tenente colonnello, capoufficio del comando del Gruppo Roma), al maggiore Luciano Soligo (allora comandante della Compagnia Montesacro), al luogotenente Massiliano Colombo Labriola (comandante della stazione di Tor Sapienza) e al carabiniere Francesco Di Sano (ai tempi in servizio a Tor Sapienza).

Tutti avrebbero confezionato un falso «con l’aggravante – scrivono i magistrati – di volere procurare l’impunità dei carabinieri della stazione Appia, responsabili di avere cagionato a Cucchi le lesioni che nei giorni successivi gli determinarono il decesso».

Nell’elenco dei destinatari dell’avviso di chiusura indagini (art. 415 bis cpp) risulta anche il colonnello Lorenzo Sabatino (ex capo del reparto operativo della capitale), accusato di concorso in omessa denuncia, come Tiziano Testarmata (allora comandante della IV sezione del Nucleo investigativo), chiamato a rispondere pure di favoreggiamento. I due, nel novembre 2015, pur avendo scoperto l’esistenza di annotazioni falsificate avrebbero omesso di riportare quanto accertato e di presentare denuncia.

INFINE, GLI INQUIRENTI contestano il falso ideologico e la calunnia anche ad un carabiniere, Luca De Cianni, per aver redatto, soltanto il 18 ottobre scorso, una nota di polizia giudiziaria nella quale – «attestando il falso» – aveva attribuito al collega Riccardo Casamassima, uno dei testimoni chiave grazie ai quali è venuta a galla, dopo nove anni, la verità dei fatti, una serie di false dichiarazioni: «Casamassima gli aveva riferito – è scritto nel capo di imputazione – che alcuni carabinieri della stazione Appia avevano colpito con schiaffi Stefano Cucchi ma che non si era trattato di un pestaggio; che Cucchi si era procurato le lesioni più gravi compiendo gesti di autolesionismo; e che lo stesso Casamassima avrebbe chiesto una somma di denaro a Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, e in cambio avrebbe fornito all’autorità giudiziaria dichiarazioni gradite alla stessa sorella». Affermazioni che il 2 novembre scorso, scrivono i pm, De Cianni avrebbe ribadito davanti agli agenti della squadra mobile, «accusando implicitamente Casamassima, sapendolo innocente, del reato di false informazioni al pm, falsa testimonianza e di calunnia».

Eppure la verità era stata confermata appena pochi giorni prima, l’11 ottobre scorso, quando il pm Musarò aveva riferito in Corte d’Assise della denuncia presentata il 20 giugno 2018 dallo stesso imputato Francesco Tedesco al fine di accusare del pestaggio i suoi colleghi Di Bernardo e D’Alessandro (i cui nomi non vennero trascritti nel verbale di arresto di Cucchi). Tedesco durante gli interrogatori riferì agli inquirenti che anche il maresciallo Roberto Mandolini, allora a capo della caserma Appia, e il carabiniere Vincenzo Nicolardi erano a conoscenza di quanto accaduto. Entrambi infatti siedono alla sbarra del processo bis accusati a diverso titolo di falso e calunnia.

A PARTIRE DALLA CONFESSIONE di Tedesco, il pm Musarò ha aperto l’inchiesta integrativa, chiusa ieri, grazie alla quale sono stati scovati «documenti di straordinaria importanza che per la prima volta fanno luce su quanto avvenne». Per esempio le due annotazioni di Di Sano: nella prima il carabiniere scriveva che «Cucchi riferiva di avere dei dolori al costato e tremore dovuto al freddo, e di non poter camminare; veniva comunque aiutato a salire le scale». Nella seconda Di Sano cambiò il testo affermando che «Cucchi riferiva di essere dolorante alle ossa sia per la temperatura freddo/umida che per la rigidità della tavola del letto (priva di materasso e cuscino) ove comunque aveva dormito per poco tempo, dolenzia accusata anche per la sua accentuata magrezza».

Anche al carabiniere Gianluca Colicchio, il giorno dopo, venne ordinato di firmare una falsa dichiarazione. È lui stesso a raccontarlo in udienza riferendo che a chiederglielo fu il suo superiore: «Per quello che percepii io – ha riferito Colicchio alla Corte d’Assise – il maggiore Luciano Soligo non si trovava in una situazione molto diversa dalla nostra, nel senso che anche lui stava dando esecuzione ad ordini provenienti dalla sua gerarchia. La “regia” in quel momento veniva dal Gruppo di Roma».

Forse gli otto militari potrebbero essere chiamati a giudizio, ma ciò che appare chiaro fin d’ora è che – a prescindere dalle responsabilità individuali – come ha affermato il pm Musarò «qui si è giocata una partita truccata sulle spalle di una famiglia. E ora è in gioco la credibilità di un sistema».