Stefano Cucchi è morto a causa di azioni e omissioni del personale addetto alla sua cura e custodia, ma non ci sono prove che le persone responsabili di tali azioni e omissioni fossero quelle portate in giudizio. Questo, in sostanza, quanto deciso dalla Corte di appello di Roma venerdì scorso. Ancora una volta, una morte tutt’altro che naturale di una persona trattenuta coattivamente sotto la responsabilità dello Stato non ha però responsabilità penali acclarate (salvo che la Cassazione non disponga il rinnovamento del giudizio sulla base di un qualche errore di interpretazione delle norme da parte della Corte di appello).

È questo innanzitutto il problema che questa sentenza ci pone: la sostanziale impunità delle violenze (e dell’incuria) su persone la cui vita è affidata alle istituzioni pubbliche. Se non vogliamo che i principi di garanzia dell’imputato nel processo penale, richiamati dal Presidente della Corte di appello di Roma, non si risolvano in una foglia di fico per coprire le responsabilità pubbliche e istituzionali, il problema dell’impunità delle morti accadute sotto la custodia dello Stato va affrontato in ogni sede e a ogni livello.

Non è in discussione la libertà di associazione sindacale e meno che mai la libertà di opinione dei dirigenti sindacali nella Polizia di Stato, ma è mai possibile che i responsabili del Sap e del Coisp continuino a dire le cose che dicono, scaricando la responsabilità di quanto accaduto sulla famiglia nella quale – fino al giorno del suo arresto – Stefano Cucchi godeva di ottima salute? Le loro farneticanti dichiarazioni ledono solo la dignità e l’immagine delle loro persone e dei sindacati di cui sono portavoce (hanno, cioè, solo una rilevanza privata) o ledono l’immagine e la dignità anche del corpo di polizia cui appartengono?

Non sono in discussione i principi della formazione della prova in dibattimento e della sussistenza della colpevolezza solo quando sia dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio, ma siamo sicuri che nell’assoluzione dell’altro ieri non vi sia una implicita condanna del funzionamento della giustizia italiana quando interviene su queste cose?

Se non sono quasi mai quelli rinviati a giudizio, non c’è un difetto di indagine e di autonomia della magistratura inquirente (e forse anche di quella giudicante) dalle forze di polizia e dagli apparati istituzionali serventi la funzione giudiziaria?

Non è in discussione il principio di personalità nella responsabilità penale, ma siamo sicuri che l’Amministrazione penitenziaria, la Polizia di Stato, l’Arma dei carabinieri, e finanche le articolazioni interessate del Servizio sanitario nazionale non abbiano nulla da dire o da fare in termini di responsabilità disciplinare e di formazione deontologica del personale addetto alle «relazioni con il pubblico», quando il pubblico gli muore tra le mani per proprie azioni e/o omissioni?
Tutte queste domande rimaste aperte dietro quella, davvero capitale, di Ilaria e della famiglia Cucchi («ma allora chi è stato?») non ammettono auto-assoluzioni nascoste dietro sacri principi garantisti, scuse di circostanza e qualche colpo sul petto.

A queste domande devono rispondere le autorità politiche, amministrative e giudiziarie competenti, dal Ministro dell’Interno a quello della Giustizia, dal vertice dell’Amministrazione penitenziaria al Capo della polizia, dal Comando generale dell’arma dei carabinieri ai responsabili dei servizi sanitari, fino al Consiglio superiore della magistratura. Fino a ora di risposte se ne sono sentite poche e maldestre. Ne aspettiamo di più chiare e convincenti.