Nello strano mondo all’incontrario che emerge sempre di più ad ogni udienza del processo bis ai carabinieri che arrestarono Stefano Cucchi la notte del 15 ottobre 2009 (morto il 22 ottobre all’ospedale Pertini), i vertici dell’Arma possono tutto o quasi. Possono anticipare il parere del medico legale che esegue l’autopsia, dandone conto parzialmente e stravolgendone il senso, in modo da indurre in errore perfino il governo chiamato a riferire in Parlamento. E possono accedere ad atti tenuti segreti dagli inquirenti perfino agli avvocati della parte offesa, in quanto coperti da segreto istruttorio. A darne prova, producendo i documenti finiti sepolti per anni, è stato ieri il pm Giovanni Musarò.

PER SEGUIRE IL FILO dipanato dall’abile magistrato antimafia con la sua indagine integrativa sul depistaggio che sarebbe stato messo in atto dai vertici dell’Arma, bisogna fare attenzione alle date. Il 23 ottobre 2009 il medico legale Dino Tancredi, l’unico perito già nominato a quel tempo, esegue il primo esame autoptico insieme al consulente di parte, il dott. Carmelo Raimondo. Ma «per rispettivi impegni» il verbale di inizio autopsia (che prende atto delle domande poste dal pm Vincenzo Barba e anticipa le difficoltà a dare risposte certe, tanto da prevedere la richiesta di medici specialisti in ausilio) verrà steso e firmato solo il 6 novembre successivo.

Alle 17:40 del 30 ottobre però viene depositata in procura una relazione autoptica preliminare nella quale il prof. Tancredi dà conto, tra le altre cose, delle tracce di sangue nello stomaco e nella vescica, delle fratture della vertebra lombare L3 e della prima vertebra coccigea, di una «lesività a carattere contusivo» sul cranio, di «multiple escoriazioni con crosta» sul corpo e sulle estremità. Tutte lesioni «compatibili con una caduta» di «natura accidentale o eteroindotta». Mentre le «ecchimosi periorbitali» sembrano, secondo i medici legali, non essere dovute a un trauma contusivo diretto locale ma forse al trauma frontale. In ogni caso, spiegavano i periti, non si poteva dedurre un nesso causale tra l’evento traumatico e la morte, «non emergendo attualmente elementi obiettivi» in tal senso.

UN DOCUMENTO, QUESTO, che non venne allegato alla relazione finale stesa il 7 aprile 2010 dal collegio di periti presieduto dal prof. Arbarello, nominato proprio per risolvere ogni dubbio. E che viene oscurato anche agli occhi del legale della famiglia Cucchi, l’avvocato Fabio Anselmo, quando il 5 novembre 2009 chiede di poterlo visionare: «È coperto da segreto istruttorio», rispondono in procura.

Eppure il 30 ottobre 2009 l’allora comandante del Gruppo Roma, il generale Alessandro Casarsa – che ieri, chiamato a testimoniare, si è avvalso della facoltà di non rispondere, come pure hanno fatto il tenente colonnello Luciano Soligo e il capitano Tiziano Testarmata, tutti indagati per falso – scrive un appunto che servirà al generale Vittorio Tomasone per emanare, due giorni dopo, il 1° novembre 2009, una nota in cui si anticipavano di sei mesi le conclusioni a cui avrebbe dovuto arrivare il collegio peritale, negando «segni macroscopici di percosse», riconducendo ad una «patologia epatica o renale» le tracce di sangue nello stomaco e nella vescica, e indicando nell’operato dei medici la possibile concausa di morte del povero Cucchi.

Ça va sans dire che la credibilità delle relazioni peritali successivamente scritte «è irreparabilmente inficiata», come ha fatto notare lo stesso pm Musarò che ha chiesto di preservare questo processo dai vizi introdotti nel precedente.

DI TUTT’ALTRO AVVISO invece i legali degli imputati, in particolare l’avvocato Giosuè Naso che difende il maresciallo Roberto Mandolini, comandante della caserma Appia a cui appartenevano i carabinieri che eseguirono l’arresto. Naso perde le staffe perché «questo processo sta diventando quello che temevo, un luogo per ratificare le indagini della procura», dice. E, battibeccando con il pm, aggiunge: «Qui si sta insinuando che erano tutti d’accordo per alterare la realtà. Me ne ricorderò quando andremo al processo Casamonica – afferma con aria di sfida l’avvocato che difende anche in quel dibattimento gli imputati – dove le indagini sono state condotte dai carabinieri. Anche lì – ammette Naso, una volta tra i migliori avvocati di Roma – i carabinieri hanno picchiato, ma in quel caso lei, dott. Musarò, non se n’è accorto».

PUÒ DARSI. Ciò che è sicuro però è che neppure l’allora comandante della compagnia Casilina, il maggiore Paolo Unali, non indagato e sentito ieri come teste, si accorse di nulla quando, su ordine dei suoi superiori, il 27 ottobre 2009 raccolse le annotazioni di tutti i militari che avevano avuto contatto con Stefano Cucchi. Il giorno prima, infatti, dal Comando regionale del Lazio aveva ricevuto l’Ansa che dava notizia della conferenza stampa di Luigi Manconi e Patrizio Gonnella, indetta per rilanciare i dubbi e le denunce della famiglia Cucchi.

Il mancato fotosegnalamento? «Non è obbligatorio – risponde al pm Unali – comunque il detenuto, che era già stato fotosegnalato in precedenza, era stato poco collaborativo». Nessuno scrisse però questo particolare nelle annotazioni di servizio. E nessuno denunciò Cucchi per resistenza a pubblico ufficiale. «Perché la sua, mi dissero, era una resistenza passiva, non fisica», risponde il maggiore, senza tema di smentite in questo caso. «Alla stazione Appia – riferisce infine Unali – c’era tensione, la notizia aveva fatto clamore e si aspettava a breve la lista degli indagati».