Una cosa, la sappiamo e non dobbiamo mai dimenticarla. Già la sentenza di primo grado ha dovuto riconoscerlo e quella di appello non ha potuto negarlo, se pure fosse stata questa l’intenzione. Il dato inequivocabile è che Stefano Cucchi ha subito violenze dopo l’arresto.

Violenze che hanno gonfiato e arrossato i suoi occhi, tumefatto il volto, ricoperto di lividi il corpo, e fratturato le ossa. Lo hanno raccontato i familiari dopo averlo visto sul tavolo dell’obitorio e lo abbiamo potuto sapere guardando quelle foto oscene scattate durante l’autopsia.

La sentenza di primo grado ha detto: le violenze sono innegabili, ma le prove non sono sufficienti e le indagini sono state fatte con negligenza.

Le conclusioni della cosiddetta «super perizia» lasciavano sconcertati: Stefano Cucchi è morto di fame e di sete, le percosse – o la caduta dalle scale o l’autolesionismo, tanto che differenza fa? – non c’entrano in alcun modo.

Duecento pagine che si mordono la coda, che ruotano intorno a sé stesse e a una successione di argomentazioni contraddittorie, quasi fossero preda di una spirale autodistruttiva.Duecento pagine che, in sostanza, scelgono di non scegliere e decidono di non decidere. Dunque, ora possiamo dire che un concentrato di errori, leggerezze e colpe ha contraddistinto la vicenda di Cucchi negli ultimi giorni da vivo – accompagnandolo nella sua personalissima via crucis in dodici luoghi e all’interno di altrettanti apparati statuali – e che sembra non abbandonarlo neanche adesso che non c’è più.

La sentenza di primo grado suggerisce: i testimoni che accusano gli agenti non sono credibili, non c’è certezza che i responsabili siano loro, forse la colpa è dei carabinieri (è questa la sintesi estrema ricavabile dalle motivazioni). La sentenza di appello avrebbe dovuto assumersi l’onere di fornire finalmente una spiegazione all’opinione pubblica e di rispondere alle domande della famiglia.

Ancora una volta, invece, le parole pronunciate in quell’aula di tribunale si sono rivelate tragicamente deludenti e terribilmente povere rispetto a quelle di Giovanni Cucchi: «Le persone ferite siamo noi e lo saremo per tutta la vita. Non si può accettare che lo Stato sia incapace di trovare i colpevoli».

E a proposito di parole, è bene tornare a quanto detto all’epoca da Carlo Giovanardi su Stefano Cucchi: «anoressico epilettico tossicodipendente larva e zombie». Non sono solo le parole efferate di un uomo palesemente infelice che dà sfogo alle proprie frustrazioni con un linguaggio da strada.

Giovanardi esprime in una forma truce un pensiero che circola nel corpo sociale e che si annida nelle pieghe più oscure di alcuni apparati dello Stato. Un pensiero violento, capace di perseguire la degradazione morale di chi si considera vulnerabile e condannabile, fino a mortificarne la dignità anche dopo la morte e a sfregiarne la memoria.

Se quel pensiero circola – e sappiamo che circola – in chi detiene il potere sui corpi reclusi o indeboliti dalle sofferenze, in chi chiude le sbarre di una cella o serra i polsi con le manette, in chi può decidere della libertà o della prigionia o della incolumità di un altro essere umano, i danni possono essere enormi e irreparabili. Per giunta, nel corso del dibattimento di primo grado, quel pensiero che classifica gli uomini secondo categorie criminologiche e che li gerarchizza secondo i loro stili di vita e il loro curriculum penale, è emerso anche nelle parole di un pubblico ministero.

Ecco, se tutto questo accade, è difficile che Stefano Cucchi trovi nell’aula di un tribunale quelle condizioni di eguaglianza di tutti di fronte alla legge che gli avrebbero dovuto consentire, infine, di trovare giustizia.