L’Avana è da sempre una città ideale per un fotografo: gli scenari che offre sono quelli giusti per contrasti e varietà e poi ci sono gli habaneros, malinconici e sorridenti, che di quegli spazi sono l’anima vitale sullo sfondo di edifici fatiscenti e irreali, tra auto colorate e eccentriche, in un paesaggio che ancora non è segnato dagli effetti della globalizzazione che si sa ovunque cancella e appiattisce modi e costumi locali.
Claudio Mainardi, il più bressoniano dei nostri fotografi, capitò nell’isola caraibica nel 2001 per un lavoro pubblicitario e vi fece ritorno per altre quattro volte nel corso degli anni successivi, incantato dalla bellezza della città, ma soprattutto dalla sua gente, i veri protagonisti delle sue fotografie. Il racconto per immagini di Mainardi è esposto ora a Padova, alla Galleria Cavour, con il titolo La Habana, la perla e l’ombra (fino a domenica).
Le sue riprese, nella perfetta scelta delle inquadrature ma soprattutto della pellicola in bianco e nero, hanno il merito di restituirci una lettura non convenzionale o di maniera, come siamo soliti vedere in molti reportage sulla capitale cubana. Come ha scritto Carlo Silvestrin, curatore dell’esposizione patavina, occorre «spogliarsi dei panni dei turisti che in nove notti e dieci giorni all inclusive pensano di avere visto la perla dei Caraibi», essere, quindi, inclini a «respirare un’atmosfera spavalda, sensuale e densa di grande umanità», come ha fatto Mainardi, girovagando tra la gente osservandola nelle sue azioni e gesti quotidiani. Tuttavia non è questa un’impresa facile perché occorre tempo, ma soprattutto, l’ostinato esercizio, come avvertiva Cartier Bresson, di «mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore».
D’immediata comprensione è invece la passione-attrazione di Mainardi per l’umanità che il visitatore coglie già all’inizio del percorso espositivo, davanti alla gigantografia dello skyline di L’Avana che immaginiamo la contenga tutta. Quella città, infatti, «è una cosa sola con la costa, dall’antica Alameda de Paula fino ai confini di Miramar», come ci ricorda lo scrittore Francisco López Sacha in catalogo.
Il fotografo veneziano l’ha percorsa in lungo e in largo dalle prime luci della mattina a sera, ritraendola in ogni suo ambiente, strada, cortile, insenatura di porto, salone da ballo, mercato, dai quartieri periferici ai sobborghi, come Cojímar, fino agli isolati della Habana Vieja. In ogni luogo ha colto l’elemento originale e fuggente di uno sguardo o la delicatezza di un sorriso, lo strazio di una fatica o la gioia di un divertimento fissando quei frammenti di vita di giovani donne, ragazzi, bambini e anziani nella sua Leica M6.
Anche lì dove la città ha imposto al suo sguardo la retorica dei suoi monumenti, la laconica edilizia di matrice sovietica della periferia o l’architettura in progressivo degrado di ville e palazzi decò o coloniali, Mainardi ha cercato di umanizzare quegli spazi ricercando l’inserimento di figure in lontananza o in loro assenza di immaginare i suoi abitanti lì appena transitati come nelle foto degli interni della Villa Mercedes o Villa Alonso a Vedado.
Nelle fotografie di Minardi, lo stesso elemento atmosferico gioca un suo ruolo nella composizione: sono le nuvole che sembrano schiacciare un gruppo di ragazzi sul mare a Malecòn, è il vento che appare inarrestabile contro le palme sulla Playas del Este o ancora è il sole che crea forti contrasti chiaroscurali su modanature e superfici in pietra. È però l’acqua, l’elemento ricorrente di molti scatti di Mainardi: quella della pioggia che allaga le strade o quella del mare che infrangendosi sugli scogli bagna un gruppo di studentesse.
Come ha evidenziato ancora López Sacha l’acqua partecipa a «un’esistenza magica» di L’Avana, quella che Mainardi ha saputo raccontarci con occhio appassionato e fedele, qual è quello di un fotografo che conosce tecnica e linguaggio, ma in particolare l’uomo.