Si fanno ben poche illusioni i popoli latinoamericani rispetto all’amministrazione Biden. Il sollievo per essersi liberati di Trump è forte, ma non lo è meno la convinzione che non esista «un impero buono», secondo l’espressione usata dall’analista internazionale venezuelano Sergio Rodríguez Gelfenstein già dopo la vittoria di Obama.

Se, nel 2015, sarebbe stato lui, in effetti, a firmare il primo ordine esecutivo contro il Venezuela, ritenuto «una minaccia straordinaria e inusuale alla sicurezza nazionale» Usa, ci ha subito pensato il nuovo segretario di Stato Antony Blinken a chiarire che, sul Venezuela, poco o nulla cambierà rispetto al passato: che, cioè, la marionetta Guaidó continuerà a essere riconosciuta come presidente ad interim anche dal nuovo burattinaio e Maduro resterà il «brutale dittatore» di sempre. Cosicché sembra destinata a cadere nel vuoto la richiesta a Biden da parte del presidente venezuelano di «abbandonare la demonizzazione della rivoluzione bolivariana», malgrado il proposito di Maduro di «studiare e adottare iniziative legislative e politiche per avviare nuove relazioni tra Usa e Venezuela».

Più fondate appaiono le speranze di Cuba, considerando i passi avanti compiuti nelle relazioni con l’isola dall’amministrazione Obama. Così, evidenziando come la maggioranza dei cubani e degli statunitensi «desideri realmente una migliore relazione bilaterale», il diplomatico cubano Miguel Fraga ha sollecitato il nuovo governo a superare «la fallimentare politica di sanzioni contro Cuba» ferocemente perseguita da Trump, che «fa male ad entrambi i paesi».

E ad auspicare una nuova stagione nei rapporti con gli Usa sono anche altri governi della regione, da quello boliviano, che esorta alla «costruzione di una relazione bilaterale sana e sostenibile, nel quadro del mutuo rispetto e della complementarità», a quello argentino, che invita al consolidamento delle relazioni bilaterali e al rispetto degli organismi multilaterali, contro la politica di «disunione» tra le nazioni seguita nella «tappa precedente».

Tra i più contenti è apparso il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador, il quale, pur aspettando fino all’ultimo prima di riconoscere la vittoria di Biden, ha assicurato di condividerne le «linee principali» in materia migratoria, economica e sanitaria. E con grande favore sono state accolte in Messico, come ha assicurato il ministro degli Esteri Marcelo Ebrard, le misure annunciate da Biden riguardo alla sospensione della costruzione del muro alla frontiera tra i due paesi e al sostegno al programma Daca (Deferred Action for Childhood Arrivals) a favore di 650mila dreamers, la maggioranza dei quali di origine messicana.

Tra gli auguri al nuovo presidente non sono mancati neppure quelli dei due più appassionati sostenitori di Trump, il colombiano Iván Duque e il brasiliano Jair Bolsonaro, costretti entrambi a fare buon viso a cattivo gioco. Il primo ha espresso l’auspicio di poter «lavorare strettamente al fianco del presidente Biden», essendo quest’ultimo «un amico della Colombia».

Il secondo, dopo aver evocato «un eccellente futuro per la collaborazione» tra i due paesi, ha lasciato da parte ogni polemica sulle «interferenze» di Biden riguardo alla foresta amazzonica, dicendosi anzi pronto a cooperare con lui «a favore dello sviluppo sostenibile e della tutela dell’ambiente, in particolare dell’Amazzonia». Nessun ravvedimento, naturalmente, ma solo un disperato tentativo di uscire dall’isolamento internazionale a cui lo hanno condannato le sue sciagurate politiche ambientali e la sua criminale gestione della pandemia.