Lei è una giovane nera fedele della santeria, una ragazza semplice, con le sue insicurezze e le sue difficoltà: ha due bambini, uno da un precedente matrimonio, e un secondo marito che prima di incontrarla non aveva nessun rapporto con la religione afrocubana per eccellenza. Lui è un giovane mulatto, ha sentito il richiamo dei batá, i tamburi sacri che animano le cerimonie della santeria, ha imparato a suonare con un maestro assai stimato: ha anche un vivace interesse per l’universo femminile, e alle divinità del pantheon afrocubano chiede lumi su come regolarsi in questo campo. Le due vicende si fondono quando il percussionista viene chiamato a suonare alla cerimonia per il proprio «santo» organizzata dalla ragazza.

Che infine, mentre la musica dei tamburi si è fatta più concitata nel momento culminante della «festa», vediamo – ripresa senza insistenza e per lo più da una cauta distanza – andare in transe. Girato a l’Avana e completato quest’anno, Santeros di Marco Lutzu non punta certo ad enfatizzare gli aspetti della santeria che possono fare più sensazione, come appunto la possessione, i sacrifici animali, i comportamenti a volte estremi dei partecipanti durante la transe: anche l’uccisione rituale di un gallo è proposta con molta discrezione. Seguendo e intervistando i due protagonisti il documentario, a rischio eventualmente di una rappresentazione del fenomeno fin troppo candida, ha fra gli altri proprio il pregio di mostrare la normalità della santeria nella realtà cubana, la sua affabilità, inclusività, capacità di consolare e di creare legame sociale. Con molta sensibilità il regista mostra la cura, persino la tenerezza, con cui la protagonista fa gli acquisti di tessuti e cibo e i preparativi per allestire l’altare e approntare la cerimonia, e il rapporto diretto, confidenziale, intimo, letteralmente casalingo con i santi, gli orishas, che stanno per terra o su un ripiano dell’abitazione. E poi il riguardo nei confronti dei tamburi, «consacrati» e trattati come persone. Santeros è stato presentato alla Fondazone Cini nell’ambito di una piccola ma densa Rassegna di etnomusicologia visuale, che, alla sua seconda edizione, in collaborazione con il Dipartimento di filosofia e Beni Culturali dell’Università Ca’ Foscari, e curata dallo stesso Lutzu e da Giovanni De Zorzi, è stata dedicata al rapporto tra musiche e culture spirituali nei Caraibi e in America latina.

Fatto non usuale e lodevole, è da Ca’ Foscari che è arrivato il finanziamento per un lavoro di ricerca come quello di Lutzu destinato a tradursi non in un testo ma in un documentario. Lutzu, con all’attivo anni di ricerca sulle tradizioni sarde e sull’intreccio in Sardegna tra musica, sacro e rito, ha sentito il bisogno di andare a studiare questo nesso anche in un contesto del tutto diverso: propedeutico alla realizzazione del lavoro, in un soggiorno all’Avana, sono stati lo studio diretto dei batá e il rapporto personale e di fiducia stabilito con i protagonisti.

Felice l’accostamento di Santeros con Barbara et ses amis au pays du candomblé, doc del ’97 di Carmen Opipari e Sylvie Timbert, indagine sulla religione afrobrasiliana dall’originale angolo di visuale di bambini e ragazzini nella periferia di Sao Paulo. Diversamente dal tatto di Lutzu, i protagonisti sono approcciati con interviste molto secche: ma anche qui emerge la normalità di un’esperienza, che – pur già consapevoli della diffusa stigmatizzazione del culto, per esempio nella scuola dove tengono segreta la loro partecipazione al candomblé – bambini e adolescenti vivono in una dimensione di socialità, di appartenenza e anche ludica, in cui la transe – già provata o desiderata – è evidentemente anche un altrove rispetto ad una realtà quotidiana che si intuisce spesso difficile.

Dopo essersi spostata ad Haiti con Le Vaudou (1991) di Isaac Isitan, la rassegna è infine tornata nella maggiore isola dei Caraibi con In the Blood, in the Home, in the School, in the Street… (2012) di Geoffrey Baker, indagine sul ruolo dell’educazione musicale informale per trasmissione e tradizione familiare, nella «calle» o nelle case della cultura, e sul ruolo di rilievo che continuano in questo senso a giocare a Cuba le pratiche musicali legate alle tradizioni religiose della santeria, del palo e abakuà.