C’è, in magistratura, una questione morale: evidente e grave. Il reticolo di intrallazzi, raccomandazioni e pressioni rivelato dal trojan installato sul telefono dell’ex presidente dell’Associazione magistrati Luca Palamara è solo la conferma di una situazione nota da tempo. A ciò la politica, la stampa e una parte della magistratura (comprensiva anche di chi quei metodi ha ampiamente utilizzato in un passato più o meno recente) rispondono stracciandosi le vesti.

E proponendo “riforme” del sistema elettorale del Consiglio superiore e dello status dei magistrati. Una cosa, peraltro, manca. Una risposta non elusiva alla domanda fondamentale: perché tutto questo accade? Senza una risposta adeguata a questa domanda è facile prevedere che le “riforme” non modificheranno la situazione (o addirittura la aggraveranno, come accaduto con gli interventi normativi che si sono susseguiti negli ultimi anni).

Conviene partire dalla risposta più frequente ripetuta come un mantra a destra e a sinistra. La colpa – si dice ‒ è delle correnti dell’associazione magistrati che, per ragioni di potere, hanno minato un corpo altrimenti sano. È una risposta tanto facile e consolatoria quanto sbagliata. Certo, le correnti ci hanno messo del loro (e non poco) ma il clientelismo e la ricerca di appoggi e protezioni, anche tra i magistrati, ha radici antiche, in un’epoca in cui l’associazionismo giudiziario non esisteva e la magistratura era un corpo ideologicamente compatto e omogeneo.

Oltre un secolo fa, infatti, per cercare di sanare il malcostume imperante ci volle addirittura una legge (la n.438 del 1908) contenete l’esplicito divieto, per giudici e pubblici ministeri, di ricorrere a raccomandazioni di politici o avvocati per ottenere facilitazioni in carriera. E si trattò di un divieto vano (poco più di una grida manzoniana) se è vero che durante il fascismo, nel febbraio 1930, il guardasigilli Rocco dovette ribadirlo con una circolare.

Anch’essa sistematicamente disattesa tanto che uno dei successori di Rocco, Dino Grandi, dovette richiamarla, il 7 maggio 1940, con un telegramma-circolare in cui sottolineava la necessità (quantomeno) di evitare il flusso e la permanenza a Roma dei magistrati che assediavano i componenti del Consiglio superiore per tutto il tempo in cui gli stessi erano impegnati negli scrutini o nelle promozioni.

Né la situazione migliorò in epoca repubblicana, ben prima della nascita delle correnti, almeno a giudicare dal grottesco ritratto che Dante Troisi (in Diario di un giudice, 1955) riservava al collega in lacrime perché, non conoscendo né vescovi né cardinali, non poteva ambire alla «meritata promozione». Non solo, ma lo stesso spaccato emergente dall’affaire Palamara evidenzia che i riferimenti non sono più, da tempo, le “correnti” ma gli esponenti più forti e potenti di un indifferenziato “correntone” nel quale le idee e le impostazioni culturali non contano più nulla.

Se è così – ed è difficile sostenere il contrario – si può disarticolare per legge l’associativismo giudiziario e/o modificare il sistema di governo autonomo della magistratura, magari sostituendo le elezioni con il sorteggio (novità proposta fin dal 1972 dal fascista Almirante), ma ciò non servirà a sradicare intrallazzi e clientele, che saranno semplicemente dirottati altrove.

Per cambiare bisogna andare alla radice del problema e prendere atto che clientele, protezioni e appoggi sono regola nelle pubbliche amministrazioni e in tutti gli apparati burocratici come emerge ogni volta in cui un’inchiesta giornalistica o un’indagine giudiziaria apre una finestra sulle modalità di nomina di direttori di Asl o di presidenti di enti pubblici, di prefetti o di questori, di direttori di reti televisive o di presidi di facoltà.

Non è certo un’attenuante per chi ha praticato e pratica quei metodi nella magistratura e nel suo Consiglio superiore ma è un fatto che contiene in sé l’indicazione della strada per uscirne. Se la burocratizzazione è fonte di clientelismo, per invertire la rotta occorre perseguire il suo contrario: sburocratizzare l’apparato giudiziario, rendere temporanea la dirigenza degli uffici e ridurne i poteri, realizzare un’organizzazione “orizzontale” della giurisdizione (nella quale i magistrati si distinguano davvero solo per diversità di funzioni), eliminare i rapporti impropri di pubblici ministeri e giudici con il potere politico e il sottogoverno, svecchiare l’ingresso nel corpo giudiziario, potenziare la formazione e aprirla al “punto di vista esterno”. Dunque, l’opposto di quel che si va proponendo.

Non è una bacchetta magica, ma una boccata d’ossigeno su cui ulteriormente lavorare, sì. Altrimenti – inutile illudersi – non si uscirà dal pantano. Cambieranno i riferimenti ma non i metodi. E non sarà gran cosa se malgoverno e clientele faranno capo al ministro, alla politica o a amministratori “per caso” anziché a centri di poteri interni al corpo giudiziario.