C’è una facezia tanto diffusa fra i critici d’arte chè è oramai difficile, come per le fiabe analizzate da Propp, risalire al suo primo autore: «L’Ottocento – si dice – non ebbe un suo stile, perché volle averne troppi». In effetti, sebbene il XVIII secolo avesse conosciuto la fioritura di pannelli e porcellane decorate di strampalati motivi, che piaceva dire cinesi, e sebbene nei suoi giardini si fossero visti germogliare padiglioni pseudo-orientali del genere di quello voluto da Federico II di Prussia a Sanssouci, malgrado ciò, nessun secolo si era spinto tanto innanzi nell’infatuazione per l’esotico quanto l’Ottocento. Anche volendosi limitare ai poeti, l’elenco eguaglierebbe quello delle navi dell’Iliade: Byron, Shelley, Bouilhet, Nerval, Musset, Gautier, Villiers de l’Isle-Adam… tutti costoro scrissero almeno un componimento sotto l’influenza d’uno dei tanti travel journals che s’andavano pubblicando in quegli anni, come era capitato a Coleridge per Kubla Khan.
Di questi amori occidentali la mostra Sulle vie dell’illuminazione. Il mito dell’India nella cultura occidentale (1808-2017), curata da Elio Schenini per il LAC di Lugano (fino al 21 gennaio, catalogo Skira), vuole percorrere quello per l’India, che fu fra i più tenaci, se, come si vede passeggiando di sala in sala, non conobbe eclisse per quasi due secoli. Fu questo un amore di Don Giovanni, giacché l’Occidente per amare l’India amò molte Indie: una crudele e doviziosa di intarsi e supplizi, una eroica di guerrieri e cacciatori, una spoglia e spirituale, quasi francescana, altre poi delle quali non basta lo spazio per dare conto. La varietà della mostra è determinata dalla varietà degli stimoli che l’India seppe dare all’Europa.
Un dramma del poeta Kalidasa
Si cominciò con la diffusione di alcuni testi: la Sakuntala, un dramma del poeta Kalidasa (tradotto prima in inglese da William Jones e poi in tedesco da Georg Forster), l’Avesta e le Upanisad che Anquetil Duperron, col titolo di Oupnek’hat, id est, Secretum tegendum aveva volto in lingua latina tra il 1802 e il 1803. La copia personale di Schopenhauer con le sue notazioni autografe, esposta nella prima sala, testimonia la risonanza di queste pubblicazioni. Vi furono poi le immagini: schizzi e acquarelli dapprincipio, realizzati sul posto da viaggiatori come Thomas e William Daniell, e poi le acquetinte colorate, che da questi solevano ricavarsi e che venivano raccolte in opere di ampia tiratura, del genere colossale degli Oriental Scenery (1795-1808). Erano per lo più regesti di monumenti, vedute e scorci di città molto prossimi a quelli che David Roberts realizzerà in Egitto e in Medio Oriente. In mostra alcune tavole tratte dall’opera di Daniell come An Hindoo Temple, at Deo, in Bahar o Mausoleum of Kausim Selemanee at Chunar Gur; ma anche dipinti nei quali templi indiani rovinano tra la quieta indifferenza della gente umile, intenta alle fatiche del giorno, al modo dei più familiari delubri di Vesta o archi di Tito: così accade, per esempio, in Paugly Pool with part of Dacca in the extreme distance di Charles D’Oyly.
Libri e immagini continuarono a diffondersi per tutto l’Ottocento, spingendo taluni, specialmente fotografi come John Murray e Felice Beato e pittori come Edwin Lord Weeks, a recarvisi. Ad altri fu invece sufficiente la malia delle pagine per non cadere nel peccato di San Tommaso, come Salgari che non trasse dall’esperienza il suo cosmo di raja e maharatti ma, come già Shelley in Ozymandias e Marlowe in Tamburlaine the Great, dalla sola fatagione dei nomi sonanti che egli aveva letto nei libri di viaggio- jungla, arghilah, betel, punya, dubgah. E similmente bastarono a Gustave Moreau alcune miniature della Collezione Gentil, in parte ricopiate in alcuni suoi taccuini, per dare l’abbrivio a composite fantasie orientali quali Femmes poètes indiennes o Les rois mages in cui l’artista applicò l’erudizione archeologica all’evasione onirica in una maniera che può ricordare la Salammbô di Flaubert.
Gli autentici motivi indiani, dai quaderni alle tele, si intrecciano ad altri elementi esotici per comporre quell’ordito di nervature preziose attorno alle figure che ispirò a generazioni di decadenti la smancerosa immagine dell’oreficeria barbara. Anche Redon fu debitore all’India delle sue storie e delle sue leggende ma lo stile de La mort de Bouddha, opera squisita che è come materiata di liquefatto lapislazzulo, risente dei modelli orientali ancor meno delle eclettiche invenzioni di Moreau. In questi sedentari, d’altra parte, le suggestioni indiane costituiscono brevi note per la cassa di risonanza della loro accesa immaginazione e non rivestono un ruolo tanto differente da quello delle Carceri piranesiane nelle celebri pagine delle Confessions of an English opium-eater di De Quincey. In ciò era forse un po’ di quell’attitudine dello spirito descritta alla fine del Seicento da Magalotti per la quale «non si attende più al sapore della cosa ma l’anima, innamoratane a credenza, le si fa incontro, e prima che la specie del sapore nel suo essere naturale arrivi a toccarla, ella di lontano asperge lei di quella dolcezza immaginaria di cui ha in sé la vena, e poi accostandosele la sente quale ella l’ha fatta, non quale ell’era; e fruendo di se medesima sotto la sua immagine, pensa fruir di lei».
La Chandigarh di Le Corbusier
All’alba del nuovo secolo, tuttavia «l’orientalismo ottocentesco – scrive il curatore – cedette il passo alle ricerche degli artisti delle avanguardie, interessati più che all’esotismo dei soggetti ai linguaggi artistici che le civiltà primitive ed extraeuropee avevano prodotto e alla dimensione spirituale di queste culture». Nelle sale sono esposti alcuni fra gli esiti di tale rinnovato desiderio di spiritualità: i libri di Franz Hartmann, Lichtstrahlen vom Orient, philosophische Betrachtungen für Freimaurer (1899) e Neue Lotusbluten (1912), quelli di Madama Blavatsky oltre all’edizione originale del Siddharta di Hesse (1922) che, a partire dagli anni sessanta, divenne il baedeker spirituale di alcune generazioni, ruolo al quale lo rendeva particolarmente adatto la facilità un po’ sentenziosa della scrittura. Le opere grafiche di Fidus (che per l’anagrafe si chiamava Hugo Reinhold Karl Johann Höppener), come Lichtgebet, esposta accanto a una foto del medesimo genere, illustrano, coi loro bei ginnasti nudi stagliati su cieli luminosi, quel misticismo del corpo nature che sarà coltivato di lì a poco da Leni Riefenstahl, la ninfa egeria dell’estetica nazista. Negli anni in cui artisti quali Mata Hari, Roshanara e Isadora Duncan contribuivano ad animare in filosofi, artisti e poeti l’interesse per la danza, questa consapevolezza nuova del corpo trovò il paganesimo antico e il pensiero indiano alleati contro la cristiana mortificazione della natura; Rodin scolpì L’éternel Printemps, ispirandosi a un modello indiano del XIII secolo, e Dioniso riprese la via dell’Oriente.
Ma in mostra vi sono, si è detto, molte Indie: vi è un’India che volle svincolarsi dalle tradizioni del passato e che chiamò per questo Le Corbusier affinché edificasse la nuova capitale, Chandigarh, secondo i principi dell’architettura moderna o l’India dei maharajah che richiedevano gli arredi, lucidi e leggeri come gusci d’uovo, di Eckart Muthesius. Anche l’India tantrica di Ginzberg è diversa dalle altre Indie, poiché deriva dal trascendentalismo americano, da Emerson, da Whitman. Egli inoltre, come Alice Boner e Alain Daniélou, sentì il bisogno di fare esperienza diretta di quel paese, percorrendone le maggiori città a partire dal 1962.
Pur nella ricchezza del materiale esposto qualcosa manca, tuttavia: la musica, per esempio, (quella classica intendo ché pop e minimalismo sono ben testimoniati): Les pêcheurs de perles, la Lakmé, Le Poème de l’extase e la Sakùntala, la splendida opera di Franco Alfano, per non dirne che alcune. Ma se nel trasporto qualcuno dei diversi semi che l’India donò all’Occidente è caduto, poco male: tanti ne sono rimasti. Rimane soprattutto, al termine della mostra, l’immagine esatta dell’India come di un brulicante giacimento di miti ai quali un Occidente curioso e irrequieto attinse nelle perpetue metamorfosi che segnarono la faticosa dialettica della sua storia culturale.