Se, come diceva Marco Melani, «fare un festival è come fare un film», l’edizione di quest’anno del Lucca Film Festival (15-22 marzo) che ha assorbito il vicino Europa Cinema, festival più storico e di base a Viareggio, prosegue nella direzione di ambire, forse, a una dimensione tendente verso lo stile kolossal. Se non altro per visibilità, dal momento che dopo la presenza di David Lynch dell’anno scorso c’è per il 2015 un medesimo corposo omaggio dedicato al genio di David Cronenberg (purtroppo però il canadese non sarà presente durante i giorni del festival). E non solo, perché a corredare l’omaggio in questione ce ne saranno altri, dedicati al cinema di Terry Gilliam, a quello di Alfonso Cuarón e a quello di Matteo Garrone – ma comunque la vocazione underground con cui è nata l’esperienza di Lucca non sparisce, dal momento che si potrà aver modo di vedere film spesso poco visti e molto belli come quelli di un Roberto Nanni (l’omaggio relativo alla sezione cinema sperimentale), oltre che aver la possibilità di essere spettatori del concorso internazionale di cortometraggi, alla base (quasi da sempre) della struttura del festival. Ma torniamo a Cronenberg. Oltre ai film l’omaggio lucchese si articola in diverse iniziative, come la lezione di cinema che l’autore terrà via Skype e il concerto sulle musiche che Howard Shore ha composto per i suoi film (nella città toscana ci sarà anche Jeremy Irons ma a ogni modo, per il calendario, si rimanda al sito del festival: www.luccafilmfestival.it). Soprattutto però, quello che salta agli occhi sono le mostre a lui dedicate (iniziate il 15 febbraio, termineranno il 3 maggio): Evolution, alla Fondazione Ragghianti di Lucca; Chromosomes, a Viareggio/GMAC Galleria Arte Moderna e Contemporanea; Red Cars, all’Archivio di Stato agli Ex Macelli, Lucca – e a queste si aggiungano pure M. Butterfly, al Museo Puccini, Lucca e Mutazioni di carta, all’Auditorium della Fondazione Banca del Monte, Lucca (quest’ultima dall’8 al 22 marzo: sui manifesti, locandine, foto, buste rare del cinema del nostro).
Fra le persone decisive nell’organizzare il tributo di Lucca al canadese c’è, senza dubbio, Domenico De Gaetano, mente dell’associazione culturale Volumina di Torino (www.volumina.net) che da anni lavora nella creazione di libri d’artista e non solo con registi di nome, fra cui – appunto – Cronenberg, uomo «molto schivo» e che «quando ci lavori insieme, ti colpisce non solo per la sua forza di volontà, ma soprattutto per la sua pacatezza d’animo, il suo distacco dalle cose, il suo sguardo ironico sulla realtà, la sua intelligenza nel fare la giusta osservazione» come ci scrive lo stesso Domenico via e-mail. Ed è proprio grazie a lui che siamo riusciti – sempre online – a intervistare l’autore di Videodrome…
Quest’anno ci saranno a Lucca tre mostre per celebrare il tuo lavoro. In «Evolution» troviamo gli oggetti di scena di alcuni dei tuoi film messi in mostra e questo ci sembra sottolinei un tema ricorrente nella tua opera, cioè una estetizzazione di determinati oggetti d’uso e strumenti. Com’è stato mettere in mostra il tuo cinema?
Be’, penso abbiano fatto un ottimo lavoro nel rintracciare alcuni oggetti di scena. E sapete, gli oggetti di scena non sono fatti per durare molto a lungo. Quello che crei per il cinema è molto transitorio, è lì per durare fino a che non hai finito il film, e quindi sono rimasto sbalordito che siano stati capaci di inseguire e trovare molti molti articoli, come gli strumenti ginecologici di Inseparabili o le creature di eXistenZ. Credo poi che abbiano ricreato alcune cose, per esempio hanno ricreato il Mugwump. Il Mugwump originale era fatto solo di lattice di gomma che in effetti si deteriora nel tempo e quindi ne hanno ricreato uno tramite una specie di plastica e hanno fatto un lavoro bellissimo, è veramente perfetto. Quindi c’è stata grande creatività, una creazione originale implicata in questa mostra, che non è solo una sorta di collezione di vecchi oggetti polverosi. È davvero una specie di ri-creazione ed è stata allestita con molti video interessanti – alcune delle interviste che ho fatto durante i miei vent’anni, ed è davvero una mostra vibrante, viva. Non un vecchio museo, ma davvero una installazione d’arte con una sua vita.
«Chromosomes», invece, rivela il tuo cinema messo in scena attraverso singoli fotogrammi presi da tuoi film. Come hai concepito questa operazione, con quali criteri?
L’idea di Chromosomes non è mia. È stato molto interessante per me avere Domenico (De Gaetano) e il suo gruppo di Volumina a scegliere singoli fotogrammi dai film e manipolarli digitalmente, perché la cattura e l’esposizione di quei fotogrammi ha rappresentato tutta una nuova comprensione di ciò che stavo facendo. Sapete, come cineasta non penso mai a un fotogramma, ma penso sempre al flusso del tempo e quindi sì, è stato molto interessante, per me ma anche per il mio lavoro, avere quei fotogrammi presi dai film e poi stampati su tela e presentati come mostra di quadri in un museo d’arte. È molto eccitante, molto illuminante. In un certo senso, possono essere guardati da un pubblico come un film alterato o geneticamente modificato.
L’altra mostra a Lucca è Red Cars che offre, fra le altre cose, la possibilità di conoscere un tuo progetto mai filmato e che indubbiamente ci rimanda alla tua passione per le macchine. Ci puoi dire qualcosa?
Red Cars è stato un progetto a cui ho pensato parecchio tempo. Ho finito di scrivere la sceneggiatura più di 10 anni fa e l’ho amata tantissimo. È un mix di molti interessi: motori e corse, automobili e moto, Ferrari e Ducati, esistenzialismo e incubi. L’atmosfera della storia è tipicamente, meravigliosamente italiana, con accuse di tradimento, opera lirica, forti amicizie e gelosie (sia romantiche che professionali). Il libro (la sceneggiatura è diventata poi un libro d’artista, per Volumina di De Gaetano, ndr) e l’installazione – una fusione di sceneggiatura e immagine – sono la sua stessa mutazione. In un senso molto reale per me è stato come un universo alternativo, un modo per creare il mio film perduto senza attori e squadra, senza compositore e senza mixer del suono…
Parliamo di Divorati, il tuo romanzo (uscito da noi per Bompiani). Pensi che la tua relazione con le immagini come cineasta sia cambiata attraverso questa esperienza?
La scrittura di una sceneggiatura è una forma così differente che per me non c’è quasi alcuna relazione con l’esperienza della scrittura di un romanzo. Una sceneggiatura è una specie di strano e ibrido genere di scrittura perché stai essenzialmente creando un modello per un insieme di molte persone che verranno poi a realizzarlo, laddove con un romanzo… è così personale, intimo, solitario. È davvero una esperienza diversa, e sei veramente responsabile dei tuoi stessi atti. Quindi, per me, scrivere un romanzo è stato molto più come dirigere di quanto lo sia stato scrivere una sceneggiatura perché fai il cast, le luci, i costumi, trovi le locations, le atmosfere. Tutte queste cose sono fatte da altre persone quando stai realizzando un film come cineasta.
In una intervista recente, in merito a certi elementi divertenti di Maps to the Stars, hai affermato che hai sempre fatto in qualche modo commedie. Questa sembra più di una provocazione per noi. Qual’è il tuo punto di vista?
L’anno scorso al festival di Cannes mi è stato chiesto da un giornalista: «Hai mai considerato di fare una commedia?» E io ho risposto irritato: «Non ho fatto altro». Non stavo scherzando: stavo dicendo la verità. Certo, se considerate la commedia popolare di Hollywood, dove tutto finisce in un genere di cose buonista, sono lontano da quella definizione tradizionale di commedia, ma per me, a osservarla, la condizione umana presenta un aspetto umoristico e poi, ovviamente, l’esplorazione della condizione umana è davvero il senso ultimo dell’arte. E non posso immaginare di non avere l’umorismo come parte di tutto questo. Non posso proprio.