Yann Demange è il regista di Dead Set, una miniserie del 2008 nella quale il reality stile Grande fratello s’ibridava con un’epidemia zombie. Una piccola cosa che aveva il merito soprattutto di non durare più del dovuto e di recuperare lo spirito della polemica romeriana. Sorpresa tanto maggiore, dunque, questo Cocaine – La vera storia di White Boy Rick , ispirato alla vera storia di Rick Wershe Jr., il più giovane infiltrato dell’Fbi che, abbandonato dai suoi mandanti, si becca trent’anni per spaccio e altri reati. Sorpresa vera perché il film , ambientato nella Detroit operaia dei primi anni Ottanta, devastata dalla crisi economica e all’apice dell’epidemia da crack, evoca un cinema oggi non più praticato negli Stati uniti. La fotografia livida di Tat Radcliffe, anche lui reduce da Dead Set, il montaggio preciso, non congestionato di Chris Wyatt sono chiaramente un omaggio non inerte alla lezione documentaria del cinema poliziesco urbano settantesco. La ricostruzione ambientale (i Blockbuster, la pista da ballo per pattini a rotelle, l’electro pre hip-hop, i dettagli dell’abbigliamento) lungi dall’essere esibita, risulta come strappata direttamente alla strada e alla sua memoria.

TUTTO, infatti, vive di una giustezza precisa ma mai esibita. Sempre organica al racconto. L’attenzione alla luce, soprattutto in interni – creano un corrispettivo emotivo di grande efficacia. Il quartiere devastato nel quale vivono Rick e il padre (Matthew McConaughey in grado di trovare nuove tonalità al suo vitalismo redneck), attraversato dalle macchine della polizia in cerca di uno spiraglio per arrestare qualche spacciatore, è il contraltare della guerra reaganiana alla droga la quale provocherà più vittime domestiche che altro, lasciando inalterata la posizione del narcotraffico sul mercato (l’espressione del volto di Jennifer Jason Leigh è il bilancio più attendibile di una disfatta senza appello). Film in grado di evocare il genere solo costeggiandolo, White Boy Rick è in realtà il racconto straziante di una famiglia che non riesce a essere tale. Non a caso il controcampo ai fallimenti di McConaughey è fornito da Bruce Dern e un’attentissima Piper Laurie a loro volta corpi di una generazione in fuga dai propri genitori.

OVVIAMENTE l’aura funeraria che avvolge la dipendenza da eroina deve qualcosa anche a Requiem for a Dream di Darren Aronosfsky che figura fra i produttori. Il momento in cui McConaughey recupera sua figlia (l’ottima Bel Powley) dalla crack house evidenzia una pietà addirittura scorsesiana. Un film forte e dignitoso, White Boy Rick, politicamente giusto, in grado di restituirci il sapore del cinema degli ultimi Frankenheimer, dei migliori Harold Becker, la malinconia dell’ultimo Hal Ashby, senza mai peccare di citazionismo.