Il libro di Cesare Greppi, Morte precoce (prefazione di Silvia De Laude, Il Canneto editore, pp. 96, euro 12) è un ritratto in due tempi. Nel primo si racconta – ma, e vedremo perché, sarebbe più corretto scrivere si dipinge – la figura di un giovane seminarista di diciannove anni, Niccolò, che venerdì 11 febbraio, nei primi anni del 1600, dopo un’agonia di pochi giorni dovuta a un carbonchio, muore in un monastero dell’Italia settentrionale; nel secondo («Anamnesi: Paradisi»), Greppi lavora sui ricordi del giovane, rappresentandone vivamente i colori dell’anima, con una «ricercata traslucidità e trasparenza» (De Laude) di linguaggio, riportando l’immagine di quel viso a dantesca memoria (Par. III., «Quali per vetri trasparenti e tersi, / o ver per acque nitide e tranquille, / non sì profonde che i fondi sien persi, / torna d’i nostri visi le postille / debili sì, che perla in bianca fronte / non vien men forte a le nostre pupille»).

UNA SERIE DI VISIONI di distillata e composta gioia per la sacralità della vita nelle sue manifestazioni più semplici: «Ah, pensava Niccolò, questo regno della terra con quanta tranquillità conduce il gioco della letizia! Parlava a se stesso come tra le lacrime. Era quella la prima volta che dal fondo del suo sapere traeva a sé la parola ‘letizia’». Un delicato ciclo di madeleine dello spirito che, con leggere ombreggiature luminose, rende roseo l’incarnato del giovane sul letto di morte.
Respinto da Sellerio più di vent’anni fa, il libro è ora edito grazie a Il Canneto, con l’originale postfazione di Silvia De Laude promossa (ma sfrangiata) a prefazione, che si pone già dal titolo, «Breve ma veridica e personalissima storia di un libro perduto e ritrovato: Cesare Greppi e Morte Precoce», come telaio che non fissa il testo in un’analisi critica, ma provoca una vera e propria esondazione dello scritto al di fuori dello stesso, complice una virtuosistica ricostruzione della formazione linguistica dell’autore, dalle traduzioni di Góngora, agli studi appassionati negli archivi dell’Ambrosiana, fino al racconto epico-editoriale della riapparizione e pubblicazione del racconto. Il titolo di De Laude cita, non a caso, Roberto Longhi (Breve ma veridica storia della pittura italiana, introduzione di Garboli, dove si ricorda come, per Longhi, sia la forma e non il soggetto la questione fondamentale).

E la forma è questione fondamentale anche per Greppi, forma che deve saper ricreare la presenza del soggetto nella sua assenza e che spinge il controllo della frase alle possibilità rappresentative dell’immagine. L’esperienza di lettura di Morte precoce deve essere considerata, perciò, quella dell’osservazione di un dipinto e, allora, il Niccolò di Greppi ci apparirà, straordinariamente simile a uno dei monaci di Zurbarán, in una combinazione unica di capacità espressiva, nel restituire la verità essenziale della vita nel seminario, e unicità dell’azione costituita nel testo dall’agonia del giovane, che emerge in tutta la sua ricchezza di particolari e si risolve in opera d’arte.

SE, NELLA PRIMA PARTE, abbiamo la composizione chiaroscurale delle scene nel «dormitorio vecchio» resa in una luce rembrandtiana con Niccolò sul letto di morte tormentato da una moltitudine di demoni, il confessore accanto e i chierici intorno, nella seconda parte Greppi, come «quando colora un bel soggetto un bel predicato», trova le tinte adatte all’assunzione al cielo di un’anima pura, nel modo dell’Apoteosi di San Tommaso d’Aquino di Zurbarán: dona cioè a Niccolò un’anamnesi che conferisce verosimiglianza ai miracoli, alle visioni ed alle estasi, rendendo la vita del giovane con i colori della poesia.
A questo cammeo letterario di Greppi – poeta considerato da Stefano Agosti tra i più significativi del Novecento italiano, per la sua scrittura «concentratissima, misteriosa, segreta e splendente ad un tempo» – solo un appunto sulla scelta del titolo, in cui si è data enfasi alla parola morte, in contrasto con l’estrema cura ovunque modulata in una selezione rigorosa del fraseggio, di cui è prova anche la sua ultima silloge, Chronicon (Coup d’idée 2014). Più appropriata sarebbe parsa l’intitolazione: «morte e paradisi».