«Scoppia la guerra in Siria e scappi all’estero. Pensi che tornerai quando la società riprenderà a funzionare ma non accade mai, alla fine capisci che era un pensiero irrazionale. Allora ti domandi come puoi interagire con quello che accade nel tuo paese come artista. Il passato andato in frantumi per la guerra, la vita in esilio, come si può convivere con il peso della quotidianità in Siria quando si è al sicuro in Europa? Per chi fare teatro?». Sono i nodi che lo scrittore e regista Wael Ali ha cercato di sciogliere nello spettacolo Sous un ciel bas – Under a low sky, presentato in prima assoluta al Napoli teatro festival Italia (in scena fino a stasera alla Sala Assoli).

IL PROTAGONISTA è Jamal, un documentarista siriano che vive in Francia, ossessionato dalla perdita del proprio passato: i luoghi della sua giovinezza sono scomparsi, le case che frequentava sono deserte e coloro che componevano il suo mondo a Damasco si sono dispersi in altri paesi. Comincia così un viaggio per imbastire i brandelli del suo mondo in frantumi a cavallo tra Medio Oriente ed Europa. «Chi è in Francia non vive la condizione della guerra ma sopporta il riflesso su di sé – racconta Wael Ali -, la vita privata viene comunque investita dal conflitto. Il conflitto ci cambia e le conseguenze delle scelte politiche si trasformano nei nostri vissuti». Sous un ciel bas è parte del focus che il Ntfi dedica al mondo arabo. È ancora Damasco a fare da sfondo a Cronache di una città senza nome, diretto da Mohamad Al Rashi e Wael Kadour. La sceneggiatura si basa su una storia vera: il suicidio di una giovane donna, Roula, accusata di omosessualità, all’inizio della rivoluzione nel 2011. Gli autori si pongono una domanda: quali erano i limiti della libertà individuale durante il regime e come sono cambiati nei primi giorni della rivolta, se la libertà sia aumentata o addirittura diminuita.

«ABBIAMO PARLATO con molte donne che hanno sopportato le prigioni siriane – spiegano gli autori -, le loro storie ci sono servite per raccontare la repressione imposta da un regime claustrofobico, ma anche per interrogarci se sia possibile decidere della propria vita nel mezzo di un conflitto permanente, in cui la pressione sociale, culturale e morale ti fanno credere di non avere alcuno spazio d’azione». È la sopraffazione a segnare i rapporti: «La violenza intrinseca a un sistema politico, economico, religioso instaurato e perpetuato da decenni ci ha segnato – concludono –. Ma non ci interessa il singolo aguzzino perché il problema è il sistema e come rovesciarlo per trovare la giustizia sociale». Il focus prosegue poi con Finir en beauté di Mohamed El Khatib (25 e 26 giugno, sala Assoli). Artista francese di origini marocchine, prende spunto da interviste, email, sms, documenti amministrativi per ricostruire in scena il racconto di un lutto, la morte di sua madre. Infine, il 2 e 3 luglio al Museo Diocesano Alexandre Roccoli presenta Hadra. Un percorso dalle danze di possessione diffuse nel Marocco all’hip hop e all’house.

NELLA SETTIMANA in cui si è celebrata la Giornata del rifugiato, a Palazzo Reale è andato in scena 629. Uomini in gabbia, un progetto di Mario Gelardi da testi di autori spagnoli, greci e italiani. Il numero nel titolo fa riferimento ai naufraghi salvati dalla nave Aquarius a giugno 2018. Il pubblico è costretto in una gabbia, la stessa gabbia in cui sono rinchiusi esseri umani che definiamo migranti, quando neghiamo il loro diritto a migrare, o rifugiati negando però il loro diritto a chiedere asilo, inconsapevoli di aver innescato un processo di disumanizzazione che travolge anche noi.