La razza conta, e conta sempre più come fattore di discriminazione e disuguaglianza sociale e spaziale. È questa una delle tesi del libro I reietti della città. Ghetto, periferia, stato di Loïc Wacquant, tradotto e introdotto da Sonia Paone ed Agostino Petrillo per le edizioni Ets di Pisa. Il testo originario del 2008, che raccoglie gli esiti di ricerche sul campo condotte nel decennio precedente, dalla fine degli anni Ottanta, «dopo la conclusione della era fordista-keynesiana», in alcuni quartieri relegati e marginali di Chicago e Parigi, è stato arricchito da una postfazione dello stesso Wacquant, oltre che dalla ricca introduzione dei curatori, sociologi urbani e del territorio.

Nella sezione aggiunta appositamente all’edizione italiana, intitolata «Rivisitando Urban outcast», si evidenzia quanto e come la razza e le appartenenze etnico-nazionali continuino ad essere fondamentali, specialmente nell’intersezione con la classe, lo spazio, le politiche pubbliche ed i processi di stigmatizzazione territoriale, riconoscendo il legame delle «forme mutanti della marginalità urbana con le modalità emergenti di rimodellamento degli stati».

È questo il nocciolo duro di un libro duro, nei suoi contributi analitici, ricco di novità concettuali e di rivisitazioni teoriche fondamentali, così come nei suoi contenuti, perché dura è la vita di chi vive nei quartieri oggetto della ricerca presentata. Su questo nesso lo studio di Wacquant è chiarissimo: la vita nei «quartieri dell’esilio» è stata resa molto difficile dal cambiamento delle politiche statali e dall’approfondimento conseguente delle disuguaglianze socio-razziali. Questo doppio processo, che ha confermato l’importanza dello Stato nelle condizioni di vita delle popolazioni, nonostante la sua crisi e la sua riorganizzazione, si è combinato con una profonda ristrutturazione socio-economica, attraverso la flessibilizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro. Vengono così imposte le modalità di accesso e permanenza nel lavoro tese a consolidare la ridefinizione dei rapporti di classe, sempre più polarizzati, con una ristretta parte della forza lavoro nei circuiti ricchi dell’economia e della finanza ed una parte, ampiamente maggioritaria e crescente, collocata nei settori poveri o con basso valore aggiunto, con salari bassi ed intermittenti.

Tra Chicago e Parigi

Questo scenario è, però, generale e per comprenderlo bene bisogna guardare ai contesti storici ed istituzionali: non si può essere indifferenti alle specificità delle politiche statali e locali e della storia dei rapporti sociali, razziali ed etnico-nazionali. I cambiamenti delle politiche dello Stato e della struttura socio-economica non si sono verificati in modo uniforme, ma sono dipesi dai modi in cui, in aree diverse, le variabili individuate in precedenza si sono combinate tra loro.
La comparazione realizzata tra Chicago e Parigi mostra che le due realtà socio-territoriali hanno molti punti di differenza, per cui il riferimento generale al concetto di ghetto rende errata l’interpretazione tanto sul piano analitico quanto sul piano politico: cercare di comprendere l’eterogeneità con uno sguardo omogenizzante impedisce, infatti, di pensare a politiche adeguate ai diversi contesti socio-spaziali, producendo errori ulteriori.

In questo libro, Wacquant dimostra che il caso di Chicago è leggibile con il concetto di iperghetto, che inquadra una realtà radicalmente diversa dal ghetto conosciuto nel Novecento, caratterizzato dalla povertà ma anche da relazioni comunitarie e rapporti di solidarietà, mentre ora prevalgono relazioni molto più violente e scarsamente orientate al mutuo aiuto ed una struttura di classe e razziale semplificata. Invece, nel caso delle banlieues il concetto di ghetto è del tutto inappropriato. A differenza del caso statunitense, la banlieue non mostra chiusure ed omogeneità etniche o di classe, non risulta attraversata da politiche di ritiro totale da parte dello Stato e non presenta livelli alti di violenza quotidiana. Pertanto, il confronto tra le due realtà non implica alcuna possibile sovrapposizione, per cui, come scrivono Paone e Petrillo nell’introduzione, «il senso ultimo dell’impossibile (per ora) paragone transatlantico è quindi quello di mostrare quanta distanza passi tra le Cités e l’iperghetto americano».

Dunque, il continuo riferimento al ghetto di tanti giornalisti e ricercatori non ha aiutato a comprendere i contesti spaziali definiti marginali nella loro concreta specificità, accontentandosi di chiavi interpretative generali e a-storiche. La storia, invece, conta. Sia la storia di medio periodo, relativa ai cambiamenti dello Stato e del capitalismo, sia la storia più lunga, come la persistenza della linea del colore e della separazione gerarchica tra bianchi e neri stanno ancora oggi, nel 2016, a dimostrare.

Diritto alla sussistenza

La storia conta anche per individuare, in modo coerente, le possibili vie d’uscita e su questo Wacquant è chiaro. Da un lato, vanno cambiate le pratiche sociali, comprese quelle del mondo dell’informazione, che favoriscono la stigmatizzazione socio-territoriale di alcune aree delle città. Dall’altro lato, va cambiata la politica statale, all’altezza del nuovo tipo di capitalismo, fondato su finanza e conoscenza, giungendo ad un reddito di base universale, perché «se vogliono avere un impatto significativo, le politiche pubbliche volte a combattere la marginalità avanzata dovranno spingersi oltre il perimetro ristretto del lavoro salariato e muoversi verso l’istituzionalizzazione di un diritto alla sussistenza che si situi al di fuori della tutela del mercato».
Un libro che invita a guardare con occhi nuovi a situazioni nuove, capaci di confrontarsi con le rinnovate forme del capitalismo e della marginalità, ma anche con le nuove possibilità politiche, alla ricerca di una maggiore giustizia spaziale e sociale.