Una parte rilevante della cultura americana esce dall’università delle galere a stelle e strisce. Gli autori di quella scuola hanno scritto i loro saggi e i loro romanzi tra pestaggi e celle d’isolamento. Sono narratori e sociologi e leader politici che hanno lasciato un tatuaggio di sangue sulla pelle immacolata dell’America. Qualcuno è uscito e si è rifatto una vita, come Ed Bunker e Chester Himes. Qualcuno è morto in carcere, come George Jackson o Jack Henry Abbott.

In quel genere a sé che è la letteratura carceraria americana, Abbott occupa una postazione unica. In una vita spesa tutta tra correzionali minorili e penitenziari, aveva divorato tutti i libri che riusciva a farsi spedire, ma soprattutto quelli di filosofia. Era diventato comunista, un marxista colto e sofisticato che intrecciava la lezione di Marx con un esistenzialismo fortemente critico nei confronti dei santoni dell’esistenzialismo del suo tempo, a partire da Jean Paul Sartre. Il suo primo libro, Nel ventre della bestia, uscito nell’81 con grandissimo successo e riproposto ora in Italia da DeriveApprodi (pp. 189, euro 15), non è solo la cronaca raccapricciante di una interminabile stagione passata nel più atroce degli inferni. È anche una riflessione articolata a diversi livelli, sociologica, psicologica, politica, etica, a tratti persino metafisica, sulla presa che l’istituzione carceraria esercita sull’animo più ancora che sul corpo delle proprie vittime.

Da un carcere all’altro

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La trattazione eclettica, i salti continui dalla narrazione alla speculazione, dallo sguardo del filosofo a quello del testimone diretto, non derivano da uno stile consapevolmente scelto. Il libro è frutto di una fitta corrispondenza tra Abbott e lo scrittore Norman Mailer, composto da amplissimi stralci delle lettere che il detenuto forse peggio trattato che ci fosse allora nelle carceri americane, rinchiuso sin dall’età di 9 anni, con sulle spalle 14 durissimi anni di isolamento, inviava allo scrittore famoso, allora impegnato a scrivere il libro che sarebbe poi diventato Il canto del boia. La storia di un altro detenuto condannato a morte, Gary Gilmore

Born Under A Bad Sign, recitava il titolo di un classico blues scritto nei Sessanta, proprio negli anni in cui Abbott passava da un pestaggio a un altro, e poi a forme più sottili e micidiali di tortura. Anche lui era nato sotto la stella peggiore che si possa immaginare. Nato nel ’44 dall’incontro casuale tra un soldato e una prostituta di origine cinese, sballottato per tutta l’infanzia da un istituto minorile all’altro. A 18 anni scopre la libertà, ma la vacanza dura poco: sei mesi appena, poi torna in carcere per aver falsificato qualche assegno. In carcere ammazza un altro detenuto e il fine pena slitta di parecchio: dai tre ai vent’anni di detenzione. Nel ’71 riesce a evadere, rapina una banca, torna in manette nel giro di sei settimane.

Rispetto alla stragrande maggioranza dei suoi compagni di detenzione, Abbott vanta due particolarità tanto rare quanto poco invidiabili. Fa parte di una esigua schiera di ragazzi che del mondo hanno fatto un’unica esperienza, quella dell’universo concentrazionario, dove i bambini vengono trattati e picchiati e puniti come adulti, e gli adulti ridotti a eterni adolescenti perché sottoposti 24 ore su 24 a un dominio pieno, fondato sull’arbitrio assoluto. In più, il carattere non lo aiuta. Non sopporta l’autorità, sfida i secondini, disobbedisce puntualmente alle regole non dette ma ferree della disciplina carceraria, fondata sull’obbedienza e sulla sottomissione.

Alla detenzione, si aggiungono così le tipiche «pene accessorie» che affliggono chiunque finisca dietro le sbarre, però moltiplicate all’infinito. Lo pestano di brutto un giorno dopo l’altro, senza nemmeno bisogno di una scusa. Lo seppelliscono per anni in celle d’isolamento che sembrano ideate dagli scienziati del Terzo Reich. Ci sono quelle dove si campa al buio più assoluto, nutrendosi quasi solo di pane, acqua e, a piacere, scarafaggi. Poi arrivano quelle più moderne e asettiche, dove la luce non si spegne mai e si resta incatenati al letto per settimane e mesi, tanto il bugliolo è un buco al centro della stanza e non ci vuole niente ad allungarsi. I cervelloni si divertono anche con le sostanze psicotrope che, sommate alla già innovativa «deprivazione sensoriale», danno risultati interessanti.

Sotto una cattiva stella

Come narratore, Abbott possiede un impatto empatico assoluto. Paragonato al suo tunnel degli orrori, le efferatezze di 12 anni schiavo fanno la figura di un giulivo picnic domenicale. All’improvviso, però, scarta, devia dal racconto, passa ad analizzare, a volte caoticamente, mai però con superficialità, gli effetti di questo sistema concentrazionario sulla percezione dell’esperienza, del tempo, e dello spazio, sulle relazioni sociali e umane, sui rapporti con il potere e con l’etica. È in virtù di queste digressioni e di questi approfondimenti che, partendo da un’esperienza specifica e particolare come la sua, riesce a svelare le logiche dell’intero universo carcerario. Non solo di quello degli Usa nella seconda metà del Novecento ma sempre e ovunque. Anche qui e anche ora, nell’Italia delle galere straripanti.

Nel 1981 Mailer riuscì, in contemporanea con l’uscita di Nel ventre della bestia, a far ottenere al suo autore la libertà condizionale. Ma Jack Henry Abbott era nato sotto una cattiva stella, per colpa di una intera vita passata nel cortile di qualche galera più che di un capriccio maligno degli astri. Sei settimane dopo essere uscito di prigione uccise a New York un giovane cameriere, in un alterco provocato dalla richiesta negata di usare la toilet del ristorante. Dopo un mese di fuga in giro per l’America e il Messico, fu arrestato, condannato, rinchiuso di nuovo. Quando le presero, scoprì di essere autore di un best seller che gli avrebbe fruttato milioni di dollari, tutti finiti in risarcimento ai parenti della vittima. Sarebbe uscito di nuovo di galera solo da morto, dopo essersi impiccato nel febbraio 2002.