Il concorso internazionale, implacabile, macina titoli, che talvolta stupiscono per originalità. Per esempio Ostatnia rodzina (l’ultima famiglia), ispirato alla vera storia di Zdzislaw Beksinski famoso pittore surrealista polacco dalla vita piuttosto singolare. Nato nel ’29, Beksinski arriva a Varsavia nel 1977 quando il film lo intercetta per seguirlo passo passo nel suo appartamento che condivide con la moglie, la mamma e la suocera, mentre il figlio, dj disadattato e problematico vive poco lontano. Tutto il racconto si sviluppa all’interno di questi due spazi, con le donne cattoliche convinte, Zdzislaw che appare refrattario a qualsiasi sentimento, intrigato solo dalla sua pittura e dalla tecnologia che gli arriva da lontano, da un mercante che vive all’estero e che in qualche modo gli procura denaro e oggetti, compresi i dischi per il figlio.

L’uomo registra tutte le conversazioni audio poi, con una telecamera, riprende tutto quel piccolo inferno domestico dovuto alla variante di un figlio instabile che a tratti esplode a fronte di un padre anaffettivo. Uno stillicidio di morti, alcune violente che porta alla dissoluzione dell’intero nucleo famigliare nell’arco di una trentina d’anni. Il giovane regista, Jan P. Mastuszynski, esordiente nel lungo, mostra di avere acquisito la lezione di Kieslowski e della scuola polacca in generale con un racconto dall’impatto prepotente.

L’escamotage di girare solo nei due appartamenti, con l’unica eccezione di un lungo sterrato che porta al palazzone di cemento dove risiede il figlio, è funzionale al fatto di non doversi preoccupare del passare dei decenni, solo abiti e capelli cambiano (salvo una digressione in uno studio tv e in una discoteca), in compenso la claustrofobia di quegli spazi offre un ulteriore elemento di drammaticità alla vicenda.

Ma sono proprio i personaggi, le loro frasi, i loro rapporti (forse anche desunti dalle registrazioni domestiche) che sembrano uscire dallo schermo per attanagliare lo spettatore. Il sarcasmo del protagonista inquieta, il suo approccio angoscia e alcune frasi pesano come pietre.

Più convenzionale un altro esordio in concorso, Marija di Michael Koch, coproduzione Svizzera-Germania, che pedina, letteralmente e troppe volte, la giovane donna del titolo nel suo girovagare tra gli immigrati e i marginali di Dortmund. Lei fa parte di quel mondo, è ucraina, sogna di aprire un negozio di parrucchiere, quando per un furterello viene licenziata, si presta a far parte di un mondo cinico e crudele pur di perseguire il suo obiettivo. Più che un film, un compito su immigrati strapazzati dalla vita e trascinati sempre più verso la perdita totale di qualsiasi rapporto umano.