«Non è questione di forma, ma, al contrario, di formazione». Più volte è capitato di tornare su queste parole di Emilio Tadini nel leggere Quando l’orologio si ferma… Scritti 1958-1970 (a cura di Giacomo Raccis, il Mulino «Tracce 4», pp. 145, euro 15,00), bel volume che a novant’anni dalla nascita ne raccoglie i frutti migliori dell’attività di critico d’arte e di letteratura. Già su queste pagine si era parlato del collage di testi e immagini Parole&Figure, imprescindibile chiave d’accesso per esplorare le molteplici direzioni dell’estro di Tadini negli anni settanta; Quando l’orologio si ferma completa idealmente l’impresa, donandoci un prezioso ritratto del poeta-pittore dagli esordi al profilarsi dalla maturità.
Diversi per per destinazione e lunghezza, questi centoventi articoli dallo stile limpido e guizzante sono senz’altro la «base sommersa di un iceberg le cui parti emergenti sono l’opera pittorica e quella romanzesca», come spiega Raccis nell’accurata introduzione; ma si prestano anche ad altri livelli di lettura, appassionanti anche per i non addetti ai lavori. Li si può leggere, ad esempio, come cronaca di una certa Brera anni cinquanta-sessanta che raramente fa capolino nelle storie letterarie (la stessa che balena in alcune pagine di Leggenda privata di Michele Mari). A far la spola tra la trattoria delle sorelle Pirovini e il Bar Giamaica ritroviamo con Tadini Mulas, Bianciardi, Del Buono, Fo, Dondero; tutti alla ricerca delle loro «incerte vocazioni», a volte – ricorda Tadini – rivelatesi grazie a incontri fortuiti: «il bar era una specie di club, ma diventava anche un’occasione di lavoro: tra le tante persone che incontravi, prima o poi qualche idea, qualche lavoretto, saltava fuori». Quando l’orologio si ferma testimonia il fervido attivismo (fondazione di riviste, apertura di nuovi spazi espositivi, dibattiti) d’una nuova generazione di scrittori e artisti, che se da un lato non esita a fare i conti col passato e l’eredità dei fratelli maggiori, dall’altro si sente più libera da vincoli ideologici e aperta alle più diverse sollecitazioni.
Il caso di Tadini è emblematico: i primi articoli ce lo presentano trentenne, indeciso su quale strada intraprendere. «Come riferirsi a una tradizione e allo stesso tempo confrontarsi con un presente denso e spesso inclassificabile?», questa la domanda che sembra porsi incessantemente, per cui non si farà scrupolo a far proprie le lenti interpretative più diverse, dalla psicoanalisi alla fenomenologia. Ma è la sua spontanea epochè, il continuo mettere in dubbio se stessi sospendendo il giudizio, che lo porta a guardare al lavoro altrui – e alla realtà – con occhio vergine (Breton lo chiamava «occhio selvaggio»). «Non sono un vero critico d’arte», ripete a più riprese, salvo poi inanellare folgoranti intuizioni sul filo d’una scrittura lieve, che prende per mano il lettore come solo sanno fare i narratori nati: così Ennio Morlotti parla «con una voce sorda che sembrava piena di collera repressa», mentre Mirò disegna con felicità bambinesca sui tovaglioli di un caffè milanese; e Picasso, portato in trionfo da alcuni amici pittori, fischietta solo tra i boulevards parigini dopo aver sparato un colpo di pistola in aria che ha fatto fuggire tutti. Questi lampi narrativi non sono slegati dal contesto: al contrario, rappresentano l’elemento comune a contributi di natura tanto diversa – si spazia dai ritratti monografici agli scritti teorici per cataloghi e per i «Quaderni milanesi» di Del Buono – e delineano in controluce un canone che mostra l’assoluta originalità di Tadini all’interno del panorama italiano.
Tutto teso a costruire ponti che leghino pittura e scrittura, l’autore di Le armi l’amore e del ciclo della Vita di Voltaire delinea la sua poetica transmediale distinguendo tra avanguardia vera e falsa avanguardia: e se nel primo caso non esita a schierarsi sia contro l’Informale sia contro la Pop Art americana, che a suo parere mancano di capacità di rielaborazione, in letteratura si distanzierà tanto dal realismo engagé quanto dagli sperimentalismi del Gruppo 63. Come sfuggire a un realismo mimetico ormai obsoleto e a una falsa avanguardia atta a creare opere che rappresentano uno scandalo di breve durata? Non resterà che guardare alla nuova tessitura del reale ricostruita da Picasso, alla pittura «senza ironia, senza distacco, ma nella serenità della libertà e con amore» di Mirò, agli «anni selvaggi» di Grosz, e in narrativa alla rivoluzione di Joyce assorbita dall’amatissimo Faulkner (il volume trae il titolo proprio da un passo di L’urlo e il furore: «Soltanto quando l’orologio si ferma il tempo ritorna a vivere»).
La temporalità nella narrazione, sia letteraria sia pittorica: è qui che a parere di Tadini si gioca la sfida della contemporaneità. Impossibilitato a cogliere ogni singolo dettaglio del reale, l’artista ha il compito di catturarne alcuni elementi primi e rielaborarli in modo da trasmettere i più vari strati di senso, costruirsi insomma la propria favola frugando in un mondo «pieno raso di cose» (per dirla con le parole del protagonista di Eccetera, il suo ultimo romanzo). È la poetica del «realismo integrale», espressa negli articoli teorici e negli interventi militanti dedicati all’eterogeneo gruppo di pittori di Nuova Figurazione: l’artista non può esimersi dal far vedere la sua realtà, e ciò non può avvenire se non attraverso il confronto continuo con le motivazioni più profonde della tradizione: «Una storia degli stili che si limitasse ad elencare una serie di variazioni formali, non avrebbe senso. La storia degli stili deve essere, nel profondo, la storia di come si è attuata una integrale volontà espressiva». Non è questione di forma, ma, al contrario, di formazione.