Agli inizi del Trecento, i due grandi poteri universali che si erano affermati nei secoli precedenti, l’impero e il papato, erano arrivati a un momento di crisi e fronteggiavano nuove concezioni sulla liceità del potere sovrano, come quelle espresse in Francia nell’ambito del regalismo.

IN TALE CONTESTO, mentre l’Italia era dilaniata dalle lotte fra guelfi e ghibellini, Dante Alighieri componeva il De Monarchia, forse inattuale ma certo vigoroso trattato politico, nel quale tendeva a riconoscere la dignità del ruolo dei poteri imperiali e la loro autonomia da quelli spirituali, sempre, beninteso, nel quadro di una comune dipendenza dalla volontà di Dio, sola fonte legittimatrice di qualunque potere.
Da ciò derivava il rispetto di Dante per l’idea d’impero, portatrice di una sua specifica sacralità: l’impero romano era stato difatti provvidenzialmente disposto da Dio per preparare il mondo all’incarnazione del Cristo e quindi alla conversione. Per l’autore, il fine dell’uomo è il raggiungimento della felicità in questa vita e in quella eterna; all’imperatore è affidato il compito di provvedere al benessere degli esseri umani in questo mondo. Egli deve pertanto manifestare nei confronti del papa quel rispetto che il figlio primogenito deve al padre, ma ha anche il dovere di guidare la società secondo princìpi propri alle necessità temporali, che sono differenti anche se non contrastanti rispetto a quelli specificamente spirituali.

ISPIRANDOSI attraverso Tommaso d’Aquino alla Politica di Aristotele, Dante postula la necessità di una monarchia: quindi passa a esporre le ragioni per le quali il popolo romano si era conquistato il diritto di guidare il genere umano e quelle per cui l’imperatore riceve il proprio potere direttamente da Dio. All’immagine del «sole e della luna», tipica della polemica guelfo-ghibellina (dove l’uno dei due poteri era paragonato al sole che splende di luce propria, e l’altro alla luna che splende di luce riflessa), Dante sostituisce quindi quella della «due lune», papa e imperatore, che prendono entrambe luce dall’unico sole che è Dio.

IL «DE MONARCHIA» è opera della maturità: il poeta aveva ormai accettato l’ospitalità di molti grandi signori, come Cangrande della Scala signore di Verona e capo dei ghibellini dell’Italia settentrionale; e senza dubbio le sue simpatie si erano ormai indirizzate verso il ghibellinismo. Le speranze che Dante manifestava erano legate agli eventi coevi. Nel 1308, alla morte del re di Germania Alberto I d’Asburgo, Filippo IV di Francia aveva avanzato per quel trono (il cui titolare aveva anche diritto, tradizionalmente, alla corona imperiale) la candidatura di suo fratello Carlo di Valois. Ma i principi tedeschi, timorosi di un’egemonia francese, avevano scelto invece come re Enrico conte di Lussemburgo, l’Arrigo di Dante, considerato troppo debole per imporre loro il peso di un’energica politica regale. Enrico, ch’era stato favorito dallo stesso papa Clemente V al quale aveva promesso di organizzare una nuova crociata, prese invece molto sul serio il suo ufficio: e, accingendosi a scendere in Italia per ricevere a Roma la corona imperiale, fece sapere ai signori e alle città italiane che sarebbe venuto non già come capo della parte ghibellina, bensì come rex pacificus, a portare la concordia e a ristabilir la giustizia.
Oltre al De Monarchia, l’incoronazione di Enrico e la discesa in Italia spinsero Dante a scrivere due epistole, una del 1310 ai signori d’Italia perché accogliessero e onorassero l’imperatore, un’altra dell’anno successivo indirizzata agli «scelleratissimi fiorentini» nemici dell’impero.
Da quest’ultima prende le mosse Amedeo De Vincentiis, L’Ytalia di Dante e dei fiorentini scellerati. Un caso di comunicazione politica nel Trecento (Viella, pp. 316, euro 28), perfetto quadro della situazione dell’epoca e del ruolo intellettuale del poeta. Non fu fortunata la scelta di Dante: l’impresa italiana di Enrico partì bene, anche se il ruolo di pacificatore era difficile da attuare in una terra così conflittuale.

L’IMPERATORE non aveva sufficiente forza militare e dovette quindi per forza appoggiarsi ai ghibellini, che se ne servirono per i loro fini: come i Visconti a Milano, che approfittarono della venuta del sovrano per cacciare dalla città i guelfi Torriani. Contro di lui si creò quindi, immediatamente, un fronte guelfo i cui capisaldi erano Firenze e il re di Napoli Roberto d’Angiò. Firenze, appunto, gli si oppose e a nulla valse l’assedio. Successivamente Enrico si recò nella fedelissima Pisa e da lì cercò di organizzare una spedizione contro il re di Napoli. Si mosse difatti poco dopo di nuovo verso sud: ma non lontano da Siena si spense il 24 agosto 1313, forse per un attacco di malaria.
Sul piano personale, Dante pagò l’invettiva con l’esclusione dall’amnistia del 1311, concessa dal comune di Firenze ai guelfi fuoriusciti, su quello generale vide svanire l’illusione di un impero ecumenico.