«Dentro il petrolchimico il nostro lavoro reale è di due-tre ore, il processo è tutto tecnicizzato, potremmo lavorare meno, gestirci l’orario e chiedere più occupazione… ma il sindacato, legato alle vecchie qualifiche, non lo dice», chi parla è un uomo di circa quarant’anni, ha in mano la chiave delle verità sull’immenso petrolchimico Sarom di Ravenna. È sera. S’intravedono le luminarie dell’azienda al di là del Canale Candiano. È la stessa scenografia del film di Antonioni Il grido. Siamo da poco usciti da una assemblea in una sede dei chimici Cgil, tra sedili di un cinema dismesso, preparatoria del primo convegno operaio del Manifesto che si svolgerà un mese dopo nel marzo 1970 a Bologna al cinema Vittoria.

A RAVENNA come poi a Bologna, e come già da un anno c’è una novità: a prendere la parola sono i delegati operai di reparto. A chi è delegato arrivano le analisi che Zizzi Firrao, l’ingegnere compagno di tante lotte che con le sue «immersioni» nella presunta neutralità della scienza e delle macchine, faceva «lezioni» continue sulla job evaluation, la nuova, terrificante metrica del lavoro con cui l’organizzazione centralizzata aziendale non voleva disperdere un solo movimento del lavoratore fino a limitare i bisogni corporali; e arriva l’insegnamento del medico-statistico Alfredo Maccacaro – che fonderà Medicina Democratica – e dell’operaio Luigi Mara della Montedison di Castellanza che insistono senza tregua a collegare la centralità della salute in fabbrica al territorio. Allora il nodo ambientale vedeva un soggetto sociale, gli operai, come protagonista che su questo non «delegava» più a nessuno le sue scelte.

Tutto era in movimento. Per molto tempo ho pensato che Movimento volesse dire il moto febbrile degli spostamenti fatti per correre nel vortice di scoperte e rapporti umani, che stavano passando dai corsi e dalle aule delle Università ai luoghi di lavoro. Ormai proprio i limiti di quello che era il movimento studentesco del 1968, spingevano a guardare le diseguaglianze dominanti più dirette, quelle sul luogo di lavoro. Accadeva così una esplosione di consapevolezze. Erano anni in cui per la prima volta arrivava all’Università una nuova leva di studenti di estrazione popolare. Era chiaro da subito che la rivolta studentesca era contro la selezione di classe, contro una scuola che riproduceva le gerarchie sociali e la presunta neutralità del sapere e della scienza. Scoprirlo come lavoratore-studente fu un’altra esperienza. Occupare la facoltà, preparare un esame di filosofia e correre la sera al turno di notte nella multinazionale. Poi, in movimento, scoprire in giro per l’Italia in fermento, le soggettività dell’«autunno caldo», che in realtà era cominciato nella primavera del 1968 a Valdagno e che durò dieci anni come in nessuna altra parte al mondo.

A RICORDARCELO un libro unico e prezioso, La fabbrica del Manifesto. Il decennio rosso 1969/1979 a cura di Luciana Castellina e Massimo Serafini (manifestolibri, pp. 231, euro 22 – www.manifestolibri.it), che propone due importanti saggi iniziali e decine di interventi, interviste e memorie, tra gli altri, di Gianni Usai, Lucio Magri, Manuela Cartosio, Collettivo Dalmine del Manifesto, Pino Ferraris, Ninetta Zandegiacomi, Vittorio Foa, Eliseo Milani…

La fabbrica del Manifesto non è un libro qualsiasi su un anniversario qualsiasi, di quelli spezzettati e fuori contesto fatti per mettere sulla storia una pietra tombale: sottolinea come sia stata centrale nella costruzione della «fabbrica» del manifesto la centralità della lotta operaia. È memoria viva, cogente e ci riguarda. Anche perché tra pochi giorni sono 50 anni dalla nascita de il manifesto quotidiano comunista che titolò il suo primo numero del 28 aprile 1971: «Dai duecentomila della Fiat riparte oggi la lotta operaia. È una lotta che può far saltare la controffensiva padronale e i piani del riformismo. Corrispondenza dalla prima base rossa di Mao»; attraverso il quotidiano nacque l’originale partito del Manifesto-Pdup, erede di molte culture di sinistra, e la sua Commissione operaia puntigliosamente organizzata da Lucio Magri. Non è un libro qualsiasi perché racconta di come in questo paese solo i movimenti alternativi alla divisione in classi della società, all’organizzazione capitalistica del lavoro e al suo modo di produzione abbiano costruito la democrazia, aprendo nuovi varchi alla partecipazione politica di milioni di donne e uomini.

IL CAMBIAMENTO era a pelle. Avevamo imparato a «farci collettivo» – ricorda Luciana Castellina – per sfuggire ai limiti delle assemblee studentesche e al peso della solitudine sociale. Il maggio francese era durato solo un mese, gli studenti da noi scoprivano la natura sociale del proprio ruolo. Il rapporto con gli operai diventò naturale, anche perché non si trattava solo di distribuire volantini «altrui» e partecipare ai nuovi organismi che a partire dalla salute stavano nascendo, come a Roma e Bologna, tra studenti e lavoratori; ma di svelare la propria condizione, spesso di studenti e lavoratori insieme. Rifiutavamo il lavoro come merce. Il diritto al sapere partiva da quella condizione di separatezza ed esclusione – nelle fabbriche in pochi anni sarebbe partita la rivendicazione di una formazione, oltre la produzione, che portò alla conquista delle 150 ore di studio – ricorda Massimo Serafini.

FU SUBITO SCONTRO nel sindacato, perché le Commissioni interne, ancora spartite tra componenti della sinistra, non bastavano più. A Valdagno gli operai in rivolta avevano abbattuto la statua del padre padrone Marzotto e si erano organizzati in comitati di reparto eleggendo per la prima volta delegati a partire dai gruppi omogenei di lavoro. Le assemblee creavano ovunque i primi Consigli dei delegati che aprivano vertenze sui ritmi di lavoro e sulla salute; e proponevano i Consigli di zona come istituzioni della protesta sociale. E in prima fila c’erano le donne soggette ad un doppio sfruttamento. Il contratto era una conquista dalla quale ripartire subito. Per il Manifesto i Consigli operai erano il modello della nuova, superiore società da costruire, la fonte di legittimità di ogni «partito», le fondamenta della nostra proposta politica; di fronte agli altri gruppi extraparlamentari che o lamentavano strumentalizzazioni del sindacato o, peggio, vedevano nei Consigli solo l’arma della spallata rivoluzionaria. Se ne accorsero perfino i docenti universitari che con un loro manifesto politico protestarono contro questo «contropotere».

Tra i metalmeccanici nacque la Flm, il sindacato unitario dei metalmeccanici tutti (prima organizzati separatamente da Fiom, Fim e Uilm). «Il potere deve essere operaio» e «Agnelli-Pirelli, ladri gemelli», gridava la prima oceanica manifestazione di centomila operai a Roma, un «torrente allegro che aveva scoperto nuovi modi di essere», scriveva Rossana Rossanda in un articolo del 1977 che il libro ripropone.

USCITI DAL TURNO di notte potevi avere la fortuna di immergerti nell’immenso vocio umano di quel corteo: dal sud e dal nord erano arrivati i primi treni operai. Pochi giorni dopo arrivò anche la «risposta» delle bombe di piazza Fontana a Milano. Soffrivamo al lavoro di acufeni: fuori, con il ronzio confondente delle macchine, nel silenzio notturno si percepiva un cigolio… di carri armati? Poi riprendendo il lavoro, restava solo il brusio allegro e potente della prima grande manifestazione operaia. Non eravamo soli.