Una commedia travestita da dramma, una Ronde che non ha bisogno di specchi per moltiplicare i personaggi, è la magnifica opera La gelosia di di Philippe Garrel, visto l’anno scorso in concorso a Venezia dove in passato è stato premiato più volte con il Leone d’argento per J’endends plus la guitare 1991), Les amants reguliers (2005) e per Sauvage innocence (2001) con il premio Fipresci della critica internazionale.
Tanto più semplice e aggraziato quanto più diventano strazianti i rapporti tra i protagonisti, è tutto condotto con esatto spirito geometrico, due personaggi in campo e un fuori campo che rappresenta l’oggetto della gelosia (ed era stato proprio Robbe-Grillet a teorizzare questo tipo di terzetto), un andamento circolare che farà terminare il film come è iniziato, con le stesse parole. All’inizio è lui che lascia la donna con cui vive («Devo andare») per raggiungere per sempre l’amante, alla fine sarà l’amante (Anna Mouglalis) a chiudersi la porta alle spalle senza troppe spiegazioni. In questo cerchio si racchiude un tono da pièce settecentesca, una di quelle che il protagonista (Louis Garrel), che interpreta un attore della Comédie française avrà certo messo in scena.

Nell’appartamento abbandonato la compagna e la sveglissima bambina sentono l’assenza del padre più forte di una presenza. Nella nuova casa, una buia mansarda, si fa largo la «presenza» di un’altra donna, l’attrice celebrata della compagnia. Tra l’amante e il protagonista appare perfino l’ombra di Majakovskij: lei ha baciato sulla bocca la sua statua nel museo e nutre adorazione nei confronti del vecchio professore che di Majakovskij ha scritto la biografia. Tra l’amante e il protagonista occupato con le prove, compare la presenza di un tipo rimorchiato al bar.

Poi tutto precipita per la scelta di trovare un uomo più ricco e affidabile che le sappia offrire un vero appartamento. In un’atmosfera da film degli anni sessanta tra appartamenti pieni solo di libri dove manca solo la scala da biblioteca, nei canonici caffè senza i quali non ci sarebbero certi film, sulle panchine dei parchi, in una fuggevole inquadratura in ombra dove sembra perfino di vedere Léaud da giovane, con un certo spazio lasciato all’improvvisazione, il suo particolare bianco e nero, queste triangolazioni esplodono infine in un colpo di pistola andato a vuoto, inutile richiamo d’amore.

Restano insieme, legati da rapporti che non si possono spezzare, il protagonista la sorella e la figlia, non hanno neanche bisogno di parlare su quella panchina del parco, resa tanto emblematica, in altri tempi, dagli innamorati di Peynet. «Comunicare tra uomini e donne è qualcosa di estremamente complesso, un mio oggetto di studio continuo», dice il regista.

Film di famiglia, come le famiglie dei circhi, ricordava Garrel durante le giornate di permanenza al Lido (nel cast anche Esther, la sorella di Louis), nutrito anche di amore filiale, è stato girato poco tempo dopo la morte di Maurice il padre del regista, grande attore interprete anche dei suoi film: «un lavoro fatto in tutta velocità, anche se ero triste per la morte di mio padre, dice Garrel, come velocemente erano stati girati anche i film di Godard e di Renoir. Io amo quelle opere seducenti, ma ovviamente non mi posso paragonare a loro. Ma la domanda che mi faccio è: queste opere di poesia sono ancora possibili oggi, in questa società sommersa da immagini e suoni? Io credo sia ancora possibile, perché ci sono persone che hanno bisogno di film per vivere, più che di medicine».