La procura di Genova ha inviato ieri le richieste di rinvio a giudizio per 59 degli indagati per il crollo di ponte Morandi, avvenuto il 14 agosto 2018 e costato la vita a 43 persone. Coinvolti nelle ipotesi di reato, in origine, erano in 71: tre sono morti prima della chiusura delle indagini mentre 10 sono state le posizioni stralciate in attesa di approfondimenti. È stato chiesto il giudizio anche per le due società coinvolte, Autostrade per l’Italia e Spea (la controllata a cui erano affidate le verifiche tecniche).

In oltre 2mila pagine la procura contesta, a vario titolo, l’omicidio colposo plurimo, l’omicidio stradale, il crollo doloso, l’attentato alla sicurezza dei trasporti, il falso, l’omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro e l’omissione di atti d’ufficio. In particolare, ad alcuni indagati è stata contestata la colpa cosciente. I magistrati negli atti hanno accostato il crollo del Ponte Morandi alla tragedia della val di Stava, in Trentino Alto Adige, dove nel 1985 morirono 268 persone. Anche allora «ci fu un errore di progettazione della struttura (i bacini di decantazione della miniera Prestavel ndr), i controlli non vennero eseguiti o fatti male e, nonostante gli allarmi, nessuno fece nulla». Per quella vicenda vennero condannate dieci persone: stralci della sentenza sono stati riportati dai magistrati genovesi nelle richieste di rinvio a giudizio.

Tra i 59 ci sono gli ex top manager di Aspi: l’allora ad Giovanni Castellucci, il suo numero due Paolo Berti, l’ex direttore delle manutenzioni Michele Donferri Mitelli. Per i pm ci fu «immobilismo» e «consapevolezza del rischio» da parte degli indagati. Anche per i vertici di Spea è stato chiesto il processo, a cominciare dall’ex ad Antonino Galatà, per dirigenti del ministero delle Infrastrutture e del Provveditorato delle opere pubbliche. Per i pm buona parte degli indagati immaginava che il ponte sarebbe potuto crollare ma non fecero nulla.