Una nota dell’ufficio studi di Confcommercio compara i consumi di questo 2020 con l’anno precedente e con quatto anni precedenti: 1995, 2007, 2013, 2019.

La flessione sotto la crisi Covid è evidente,e nella massa di articoli, report e analisi c’è solo l’imbarazzo della scelta per cercare conferme: solo di mercoledì scorso (26 agosto) sono usciti i dati OECD sul crollo del pil aggiornati al secondo trimestre. Un’ecatombe : Gran Bretagna -20%, Francia -13,8%, Italia -12,4% (appena un poco sopra la media dell’eurozona…).

Quello che emerge di ulteriore è il trend dei consumi pre-covid: se in termini assoluti fra 1995-2019 le spese sembrano galoppare, in termini relativi (cioè come %) la situazione pare assai più deprimente; tutte le categorie restano abbastanza statiche, con oscillazioni di pochi punti percentuali (meno per tempo libero, meno per cura di sé, meno per alimentazione; aumentano viaggi, mobilità e – soprattutto – spese per l’abitazione). Nel medesimo studio si vede anche con nettezza la crescita delle « spese obbligate», cioè i costi incomprimibili senza serie conseguenze : affitto, bollette, spese sanitarie ecc. Circa quattro punti percentuali sono migrati verso le spese di necessità – la cui percentuale è tanto maggiore quanto si è poveri.

Eppure la ricchezza prodotta in Italia è cresciuta: il Pil del paese è passato da 1409 mld a 1615 mld (prezzi costanti in euro del 2010). Ma quanto di essa è andata in tasca alle classi lavoratrici ? Secondo molte rilevazioni e studi una quota sempre minore.

Un importante articolo di Francesco Pastore già 10 anni, indicava un salto verso il basso della quota salari di diversi punti: dal 66-70% al 56-60% nel periodo successivo al 1992-1993. 6-10 punti di pil passati dai salari ai profitti (senza contare che si include anche la retribuzione dei dirigenti, contando l’amplificazione della diseguaglianza dei redditi la perdita è ancora più netta).

Una caduta avvenuta in stretta prossimità della abolizione della «scala mobile» e della firma del Protocollo di intesa del 1993 fra governo e parti sociali che dava inizio alla «moderazione salariale» per favorire la competitività del paese… Attraverso anche la flessibilità.

Poco dopo arrivava infatti il pacchetto Treu (1997), primo di una serie di provvedimenti che avrebbero precarizzato l’esistenza delle successive generazioni. Di quanto ?

Secondo i dati Eurostat la percentuale di contratti temporanei per la fascia di lavoratori fra 15-64 anni si sarebbe passata fra 1995-2019 da un 5,2% al 13,4% del totale. La fascia di giovani (15-24 anni) da un già rilevante 15,7% ad un catastrofico 56,8%.

Senza neppure considerare l’imponente percentuale di «autonomi» che cela rapporti di subordinazione lavorativa all’insegna della massima precarietà…

Che un crollo degli stipendi comporti una restrizione dei consumi è una banalità comprensibile a chiunque. Meno intuitivo è il modo con cui il sistema ha cercato di affrontare il problema: in parte sostenendo la domanda con l’indebitamento privato delle famiglie, in parte sostituendo i profitti con accumulazione finanziaria.

Aggirando il fatto acquisito che una crescita economica stabile e forte può attuarsi solo basandosi su una domanda interna sostenuta da forti salariali e da una redistribuzione più equa della ricchezza. Qualcosa che il mainstream pare non riesca a digerire. E che non si sa quanto sarà replicabile in fase Covid prolungata.

Alla fine cosa suggerisce Confcommercio per rilanciare i consumi ? Giù le tasse e finanziamenti alle imprese. Siamo a posto.