L’eco della storica stretta di mano di Panama tra Castro e Obama continua a riverberare anche dopo la discesa in campo di Hillary Clinton. Primi a lanciare gli anatemi contro l’ex segretaria di stato sono stati proprio i numerosi pretendenti alla candidatura presidenziale repubblicani. «Obama incontra Castro ma si rifiuta di vedere Netanyahu. Perché legittimare un dittatore crudele di un regime repressivo?», ha scritto in un tweet Jeb Bush, riferendosi presumibilmente al presidente cubano. Bush il giovane ha fatto la voce grossa, soprattutto in un discorso sponsorizzato dall’associazione anticastrista US-Cuba Democracy PAC, potenziale grande finanziatore della sua campagna.

Per pura casualità l’attuale lista di candidati repubblicani comprende almeno altri due personaggi con forti legami con gli ambienti oltranzisti della diaspora cubana. Ted Cruz è figlio di un emigrato cubano convertito in pastore protestante del Texas che dal pulpito usa lanciare geremiadi contro il «socialista kenyota» Obama. Ted, iperliberista di area Tea Party, impiega la medesima terminologia e non poteva esimersi dal prendere di mira il disgelo del presidente: «Concede legittimità internazionale al regime, abbandonando l’opposizione filoamericana a se stessa», ha sentenziato Cruz con vezzo retorico da Baia dei Porci. «Obama si è arreso ad un dittatore comunista nel nostro stesso emisfero» ha concluso tutt’altro che convinto dell’anacronismo della guerra fredda di cui il presidente ha parlato a Panama.

I sondaggi però rivelano che la grande maggioranza degli americani è a favore della normalizzazione dei rapporti con l’isola, ma è un dato che non impensierisce gli ideologi repubblicani che controllano la maggioranza del congresso, soprattutto nel momento in cui si contendono il favore dell’elettorato più estremista in vista delle primarie.

L’altro cubano-americano emergente del partito, Marco Rubio, ha ufficializzato la propria candidatura scegliendo per l’annuncio la Freedom Tower di Miami, sede dello storico centro di accoglienza di profughi cubani. Giocando “in casa”, il senatore irredentista ha ripetuto la sua ferrea opposizione ad ogni apertura al «dittatore», ribadendo ancora una volta la volontà di fare «tutto il possibile» in senato per ostacolare il processo in atto nei Caraibi.

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È vero che la definitiva eliminazione del bloqueo necessita della ratifica parlamentare ma la decisione di Obama è storica anche per aver spezzato il ricatto degli emigrati che dalla loro roccaforte in Florida hanno tenuto per 60 anni in ostaggio la politica degli Usa verso Cuba.

Per portare a termine il processo occorrerà rottamare ufficialmente con un voto l’anacronismo cubano. Il congresso avrà 45 giorni per ratificare la rimozione dell’Avana dalla lista dei paesi «filo terroristi», nello stesso tempo scadrà anche il termine per concludere l’accordo sul nucleare con Tehran profilando così un doppio esame e un giugno rovente per la realpolitik obamiana nel pieno della stagione elettorale ora ufficialmente iniziata, coinvolgendo quindi anche Clinton.

Mentre le bombe saudite che continuano a piovere su uno Yemen dimenticato dimostrano l’inestricabile calcificazione della politica Usa in Medio Oriente, le aperture verso Tehran e l’Avana prospettano quantomeno una volontà di cercare alternative costruttive agli abusi più famigerati del secolo americano. Ma non ci si illuda: in entrambi i casi il successo del nuovo corso obamiano dipende in gran parte da un allineamento di interessi economici capaci di influire sui voti repubblicani. L’impeto, e la maggiore possibilità di successo, per l’apertura verso Cuba è il «controsenso liberista» costituito da quel mercato chiuso al centro dell’emisfero.

Per Cuba la liberazione dal giogo dell’embargo è un via libera da troppo tempo atteso che prospetta al tempo stesso un futuro pieno di incognite. Dopo la necessaria legittimazione continentale sancita Panama, la vera prova sarà la tutela del socialismo caraibico così cinicamente sabotato per mezzo secolo dalla vicina superpotenza, trovando ad esempio un’alternativa alla via vietnamita: comunismo nominale e l’effettiva conversione a fabbrica di beni e servizi per il mercato globale.

Già dopo l’iniziale annuncio a dicembre la International Association of Outsourcing Professionals gongolava per la prospettiva di un nuovo potenziale serbatoio cubano di operatori di call center «meglio dell’India». E il settore privato non fa segreto alcuno delle mire sul nuovo possibile mercato. La settimana scorsa la borsa Nasdaq ha sponsorizzato a New York il Cuba Opportunity Summit con la partecipazione di numerose multinazionali, il ministro Usa del commercio e la stessa vice segretaria di stato Roberta Jacobson fresca dei negoziati all’Avana.

A pregustare impazientemente la «primavera cubana» non è solo l’industria del turismo di massa ma anche altri comparti come l’agricoltura industriale, che concupiscono il potenziale da esportazione una volta sollevate le sanzioni verso un mercato sostanzialmente vergine. Il disgelo cubano ha fatto venire l’acquolina in bocca perfino alla Silicon Valley, che vede un’infrastruttura digitale da costruire da zero. AirBnB ha annunciato l’avvio di operazioni cubane e almeno una mezza dozzina di società progettano già servizi di traghetti dalla Florida…

«Stanno costruendo una strada – ha detto la presidentessa brasiliana Dilma Rousseff a Panama – e le strade non si finiscono in un giorno». Starà a Cuba evitare che quella strada si trasformi come in passato in un’autostrada a senso unico per le mega corporation americane.

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