Crocetta: no dikat di Roma. Renzi gelido
Sicilia «Non mi piego alla calunnia». Il governatore resiste, i partiti strepitano ma tirano un sospiro di sollievo: niente voto. «Contro di me un killeraggio politico, il delitto imperfetto». Il presidente replica alle accuse e sfida il Nazareno: «Solo l’assemblea può decidere la fine del governo siciliano». Premier impotente e spazientito: «Basta telenovele, governino bene. Sennò a casa»
Sicilia «Non mi piego alla calunnia». Il governatore resiste, i partiti strepitano ma tirano un sospiro di sollievo: niente voto. «Contro di me un killeraggio politico, il delitto imperfetto». Il presidente replica alle accuse e sfida il Nazareno: «Solo l’assemblea può decidere la fine del governo siciliano». Premier impotente e spazientito: «Basta telenovele, governino bene. Sennò a casa»
Cita Gramsci, Pasolini, Brecht, Manzoni, Hemingway, e alla fine dopo un’ora intera di pirotecnica autodifesa, quando arriva alla conclusione piatta e chiara – «non mi dimetto» – Rosario Crocetta si toglie il gusto di recitare i versi nietzschiani di Lou Andreas Salomé della «Preghiera alla vita», «Così un amico ama l’amico/come io amo te, vita misteriosa,/sia che in Te io abbia esultato, pianto,/sia che Tu mi abbia dato felicità, o dolore», in un’aula che a questo punto strepita e rumoreggia ma sotto sotto tira un sospiro di sollievo: al voto non si va, sarebbe «moralmente inaccettabile» per il governator. E poco conveniente per le forze politiche di maggioranza e opposizione, al momento sprovviste di un’alternativa a lui. Ieri il presidente della Sicilia ha esibito il suo ormai famoso vitalismo, nonostante i giorni bui, nella Sala d’Ercole, quella dell’assemblea regionale siciliana che, gli onorevoli membri se lo ricordano l’un l’altro durante il dibattito, è un parlamento di rappresentanti del rango di deputati.
Crocetta non se ne va, almeno non è disposto a farlo per «il massacro mediatico», «il killeraggio politico sulla base di una campagna denigratoria fondata sul nulla», il «delitto imperfetto» (la citazione è dalla prima del manifesto dello scorso 19 luglio), insomma a causa della (ancora) presunta intercettazione pubblicata dall’Espresso, una conversazione con il medico Matteo Tutino, agli arresti per truffa, in cui questi pronuncia l’infame frase sull’assessora Lucia Borsellino, «va fermata come suo padre».
Crocetta, che formalmente non è accusato di niente, si difende da tutta la campagna contro di lui, punto per punto. L’intercettazione «dopo la smentita di tutte le procure siciliane, non c’è, a tutti è evidente» (l’Espresso, querelato per 10 milioni di euro, nel numero di oggi ribadisce l’esistenza di un «brano audio» di cui però non è in possesso); Lucia Borsellino «si è dimessa dopo che qualcuno le ha mostrato il finto dossier e non per questioni amministrative»; il bilancio del governo è buono e quello morale anche meglio: elenca gli scandali denunciati, dalla Formazione alle assicurazione nella Sanità, il taglio degli stipendio dei dirigenti, il blocco degli appalti sospetti, i licenziamenti dall’ufficio stampa della regione «con 21 capiredattori, che penso qualche odio me l’abbiano provocato». Se ne va un altro assessore, il numero 39 dall’inizio della legislatura, Linda Vancheri? Sono «dimissioni programmate da tempo», l’assessora non vuole perdere un’occasione importante per il suo lavoro.
Quanto all’accusa di praticare «un’antimafia da operetta» o di aver «strumentalizzato l’antimafia» come dice senza simpatia il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, Crocetta replica rivendicando di essere «un condannato a morte», per una «fatwa mafiosa» emessa dal defunto boss Emmanuello, «un pentito ha detto che una volta fuori dalle cariche istituzionali, io dovessi essere ucciso in un finto incidente, per non farmi passare come un eroe antimafia. Ma non mi sento un eroe».
Ed è proprio la mafia, a parere del governatore, la vera mandante dello «scoop fasullo, ovvero «poteri occulti che minacciano la democrazia» e «qualche gruppo, magari editoriale, interessato ai termovalorizzatori». Il suo partito, il Pd, lo accusa di governare con il suo «cerchietto magico»? Crocetta ammette qualche peccato di «ingenuità» ma si imbufalisce, «la mia azione mi rende ostile al vero cerchio magico che è quello degli affari che collude con una massoneria deviata e con la mafia». Quindi resta e anzi propone alla sua maggioranza un patto a tempo «per completare le riforme, poi voi e solo voi, senza diktat romani o di forze parallele, deciderete se mettere fine alla legislatura».
Ce l’ha con il suo Pd, che in aula è l’unico partito che non gli chiede di farsi da parte, ma che in realtà è stato quello che lo ha più attaccato. E ce l’ha soprattutto con il segretario Renzi, gelido nei suoi confronti sin dall’inizio della vicenda. I dem siciliani invece sono cauti: l’intercettazione è «una patacca», dice Antonello Cracolici, capogruppo all’Ars, avversario interno di sempre ma oggi molto più morbido del solito, ora «avviamo insieme una valutazione per capire se e come andare avanti», per passare dal «primo tempo di una vicenda complessa» al «secondo tempo in cui devono essere valutate le cose fatte e gli errori, e capire se si è in grado di invertire la rotta».
In serata, mentre i partiti siciliani festeggiano lo scampato pericolo di voto anticipato, che tutti giurano tutti di volere tranne il Pd, da Roma arrivano le parole gelide e liquidatorie di Matteo Renzi, che appena tornato da Israele deve subito occuparsi della crisi siciliana. Ce l’ha con Crocetta ma anche con il sindaco di Roma Marino, altro amministratore al quale ha recapitato un avviso di sfratto a mezzo stampa: «Si occupino di cose concrete, dei problemi della gente, della sanità», sibila il premier, «si smetta di guardare a strani giochi politici: se sono in grado di governare vadano avanti altrimenti vadano a casa. Basta con la telenovela continua: la gente non si chiede se un politico resta in carica ma se risponde alle sue domande». Renzi vorrebbe mandare a casa Crocetta. Proprio come Marino. Ma fa i conti senza l’oste, e cioè senza avere il polso delle rispettive assemblee cui peraltro spetterebbe la titolarità della sfiducia ai propri governi. A Roma la situazione è ancora congelata in attesa delle decisioni di Alfano. A Palermo preme per il voto il sottosegretario Faraone, renziano di ferro e di belle speranze, e vole provarci anche Fabrizio Ferrandelli, che ieri ha ripresentato le sue dimissioni dall’Ars. Ma la crisi del Pd isolano ha raggiunto livelli tali da ridurre tutti, dal Nazareno a Palermo, a più miti consigli di galleggiamento.
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