L’entusiasmo con cui i croati accolgono l’ingresso in Europa, il primo luglio, si può misurare tra le altre cose con un numero: 20,74. È la percentuale di affluenza al voto dello scorso 14 aprile, con cui in vista dell’adesione all’Ue sono stati eletti i primi dodici europarlamentari del paese.

La diserzione di massa degli elettori – solo la Slovacchia è riuscita a fare peggio in una tornata europea (16,96% nel 2004) – dà la cifra di quanto la prospettiva comunitaria non scuota gli entusiasmi. Da una parte incide la fisiologica paura del nuovo. Anche nel 2004, a Est, l’ingresso in Europa fu percepito con freddezza, salvo poi assistere a una costante crescita dei sentimenti europeisti, soprattutto in Polonia, Slovacchia e nei paesi baltici. Allora pesò il lungo processo negoziale, denso di tecnicismi e paletti. Basterà pensare alle limitazioni alla libera circolazione dei lavoratori, mediaticamente sintetizzate nella vicenda, celebre ma priva di fondamenti reali, dell’idraulico polacco.
Oggi a Zagabria la situazione è grosso modo la stessa. La stella polare europea s’è offuscata in virtù di una fase negoziale lunga, che ha peraltro richiesto ristrutturazioni e privatizzazioni – è il caso dei cantieri navali – non sempre facili da digerire. Diversi paesi europei, da qui ai prossimi sette anni, hanno inoltre deciso di chiudere i rispettivi mercati del lavoro ai croati.

A fronte di queste similitudini con i precedenti allargamenti, c’è da tenere conto di una differenza sostanziale. Il punto è che la Croazia entra nell’Ue nel pieno di una gravissima crisi economica. Negli ultimi cinque anni il quadro complessivo è tremendamente peggiorato. Il Pil è crollato, la disoccupazione ha sfondato il tetto del 20%, il debito è prossimo a toccare quota sessanta e gli investimenti diretti dall’estero si sono contratti.

Queste variazioni negative dipendono dalla situazione nell’Ue, a cui la Croazia è economicamente legata. Ma ci sono anche cause più propriamente domestiche, a partire dalla bolla immobiliare e dalla speculazione edilizia, non certo irrilevanti. Un’altra nota dolente è la scarsa competitività delle aziende, che spesso, più che a vendere i loro prodotti o servizi sui mercati, puntano alla commessa pubblica.

Logico che, date queste abitudini, l’ingresso in Europa spaventi qualche imprenditore. I giornali ipotizzano delocalizzazioni nella vicina Bosnia-Erzegovina, nella cui porzione meridionale, trasformata in stato fantoccio al tempo della guerra, Zagabria continua a esercitare una influenza tramite la leva demografica e la leva del voto, quest’ultima determinata dal regime di doppia cittadinanza di cui godono molti croati-bosniaci.

Un’altra ragione che spiega l’indifferenza nei confronti dell’Ue è legata alle soluzioni austere finora seguite dal governo a trazione socialdemocratica di Zoran Milanovic, in carica dal dicembre 2011. Diverse le manifestazioni di protesta nei confronti dei tagli varati dall’esecutivo. Quella che ha fatto più notizia è stata lo sciopero dei dipendenti della compagnia di bandiera, Croatia Airlines, in seria difficoltà e sulla via della privatizzazione (anche se mancano gli investitori): a maggio sono rimasti fermi per otto giorni consecutivi.

Lo scenario, fragile, potrebbe trarre giovamento dalla pioggia di fondi strutturali – 11-12 miliardi di euro nel periodo 2014-2020 – che cadrà su Zagabria, a patto che vengano spesi bene. Ma i benefici non si valuteranno di certo nel breve periodo. Intanto, i socialdemocratici (Sdp) perdono colpi, piegati dalla crisi e dall’umore della gente. Dalle elezioni per l’Europarlamento, comunque sia viziate dalla scarsissima affluenza, sono usciti malconci. Hanno tenuto botta, invece, alle recenti amministrative, difendendo alcune roccaforti e arginando l’assalto dell’Hdz, il principale partito dell’area conservatrice.

Sorprendentemente, l’Hdz è in netto recupero, malgrado gli scandali clamorosi che l’hanno colpito nella scorsa legislatura, su tutti quello che ha portato alla condanna in primo grado dell’ex primo ministro Ivo Sanader a novembre. I giudici hanno ritenuto fondato il reato di corruzione formulato dall’accusa, affibbiandogli dieci anni di carcere.