Quando è morto Sergio Marchionne i media si erano profusi in lodi sperticate delle sue capacità, della sua personalità, e persino della sua moralità: ha rimesso in piedi la Fiat, ha creato un gruppo internazionale, ha introdotto un nuovo stile nel comando (maglioncini e vita riservata), era un indefesso lavoratore, ha salvato migliaia di posti di lavoro…

Pochi avevano ricordato che Marchionne ha portato la sede fiscale di Fca a Londra, quella legale in Olanda, quella operativa a Detroit e i suoi obblighi fiscali in Svizzera; che il suo reddito ammontava a 400 volte quello medio dei dipendenti; che i contratti collettivi della Fiat sono stati imposti con il ricatto; che degli 8 piani industriali presentati per giustificare un ricorso ininterrotto alla cassa integrazione a spese dell’Inps nessuno è stato mai realizzato; che (ma allora non si sapeva) per imporre un salario dimezzato ai nuovi assunti in Chrysler avrebbe corrotto i sindacalisti; e che il regime imposto agli operai ancora al lavoro in Italia è violento, arbitrario e umiliante (nello stabilimento di Pomigliano c’è una gabbia di vetro dove gli operai che non reggono i ritmi o sbagliano qualcosa devono denigrarsi di fronte ai colleghi)… E solo il Corriere del Mezzogiorno (oltre al manifesto) aveva ricordato il suicidio, accoltellandosi, di Maria Baratto, un’operaia di Pomigliano. Ma anche di quella vicenda mancava il prima e il dopo.

Il «prima» è che per sbarazzarsi degli operai più combattivi o impossibilitati a tenere i ritmi Fiat, Marchionne aveva creato a Nola un reparto confino dove li teneva in cassa integrazione permanente, o a far niente; e che tra loro i suicidi erano stati tre, e molti di più quelli tentati.

Il «dopo» è che per protesta 5 operai avevano inscenato davanti alla fabbrica un finto suicidio di Marchionne, fingendo che si fosse impiccato perché pentito delle sue angherie. I 5 erano stati licenziati per aver offeso l’onore dell’azienda e del suo top manager; licenziamento confermato dal tribunale di Nola con la motivazione che erano venuti meno all’obbligo di fedeltà verso l’azienda; che, secondo il giudice di Nola, vieta «la manifestazione di opinioni e critiche inerenti alla persona del datore di lavoro e/o dell’attività da questi svolta»: cioè di Marchionne e dei suoi metodi.

Il giudizio di appello aveva annullato quella sentenza, imponendo il reintegro (mai attuato) dei 5, ma la Cassazione l’ha confermata, ha reso definitivo il licenziamento e ha creato un precedente per tutti i futuri giudizi dello stesso genere: i dipendenti non hanno il diritto di criticare il padrone perché questo danneggia sia lui che l’azienda. È stato così aggiunto il divieto di esprimere le proprie opinioni alla lunga lista delle diseguaglianze – reddito, potere, sicurezza, riconoscimento della dignità – che separano l’onnipotenza trionfante di un manager ricco e incensato dalla miseria di un lavoratore sfruttato, perseguitato e licenziato, senza più alcuna prospettiva di lavoro e di reddito. Che crepi!

Per leggere e sottoscrivere l’appello «Obbligo di fedeltà: per la libertà di parola e l’eguaglianza di fronte alla legge», https://nolicenziamentiopinione.wordpress.com/ oppure inviare mail a ellugio@tin.it
Il 30 settembre al Maschio Angioino di Napoli si terrà un convegno (ore 16) ed un’assemblea spettacolo (ore 21) su questi temi. Parteciperà il sindaco De Magistris.