Bassa natalità, fecondità in calo, coppie che vivono senza fare figli, ultrasessantacinquenni molto più numerosi degli «under 25» sono le persistenti caratteristiche demografiche di questo paese. Eppure, come si è detto, la cosa non sembra fare più «notizia».

Per un paese la cui economia è in ginocchio, che parla di «ripartenza» e che deve ricominciare a correre, la preoccupazione dovrebbe essere, al contrario, fortissima. Su quali gambe intenderà camminare non si può sapere.

Il comunicato stampa del 13 luglio da Istat è passato quasi inosservato, eppure ci conferma quanto era già noto, aggravandone il quadro.

Nel 2019 la popolazione residente in Italia è calata di quasi 190 mila unità, corrispondente a un calo di più di mezzo milione di persone negli ultimi 5 anni

. Sono diminuiti i nuovi residenti stranieri (dell’8,6%), mentre sono aumentati gli italiani emigrati all’estero (dell’8,1%). E

laddove i cittadini italiani residenti sono diminuiti di 236 unità in un anno – per un totale di 844 mila nel quinquennio (pari alla popolazione di un’intera provincia come Genova) – gli stranieri sono aumentati di appena 47 mila unità.

Il bilancio demografico negativo è dovuto al sostenuto calo delle nascite – ormai decennale – ora pari a poco più di 420 mila (-4,5% in un anno!) che non compensa l’alto e stabile livello dei decessi (634 mila, appena un migliaio in più dell’anno precedente) e anzi accentua il già considerevole tasso d’invecchiamento della popolazione.

Le disparità territoriali, poi, compongono il quadro, mostrando un aumento della migrazione interna – ben 1 milione e mezzo di persone ha cambiato residenza in un anno – dalle regioni meridionali a quelle del centro-nord (e solo per meno di un quinto dovuto al movimento degli stranieri). Questi ultimi, se a fine anno erano l’8,8% dei residenti totali, hanno ottenuto la cittadinanza italiana in 127 mila.

Nell’ultimo quinquennio, così, sono 766 mila gli stranieri «naturalizzati», il che vuol dire che, se non fosse stato per loro, la popolazione residente in Italia sarebbe calata di 1 milione e 600 mila unità.

Che queste cifre presentate dal nostro Istituto Nazionale di Statistica non facciano notizia non è però strano. Il fatto è che le cifre fanno notizia solo quando rispondono al cicaleccio che proviene dal Palazzo e che i media riecheggiano.

Ma le cifre non solo dovrebbero servire come base per il decisore politico, ma alimentarne la discussione, indicarne le priorità, stabilire i termini del dibattito.

Il tema si condensa, appunto, in una domanda: chi stabilisce le priorità? La crisi attuale, con l’ampiezza con la quale si sta manifestando e il ventaglio di possibili settori di intervento che fa emergere, dovrebbe fare da stimolo, se possibile, ad un’ancora maggiore attenzione alle cifre.

Ma il Palazzo, con la classe politica che lo abita, stabilisce le sue priorità guardando altrove e non solo alle constituencies che lo sostengono. I media italiani guardano ai «social» – quelli sì che fanno notizia – e a come questi interagiscono con il Palazzo.

L’Italia vera, quella di cui parla l’Istat nei suoi comunicati, sta altrove.

E lo stesso Istat non è esente da responsabilità. Qualche giorno fa è stato presentato il Rapporto 2020 sullo stato del Paese. Se ne è parlato per un paio di giorni, ma è già fuoriuscito dai radar di politici e giornalisti. Per quanto allarmante, il Rapporto ha presentato una fotografia solo in parte aggiornata. Il capitolo sulla mobilità sociale, infatti, riporta i dati di un’indagine svolta nel 2016 ma i cui risultati sono stati resi disponibili sono nel 2019. Non esattamente up-to-date, quindi.

Ora, se è vero che per quel tipo di indagini servono tempo e risorse, è vero che negli ultimi anni il nostro Istituto di Statistica ha visto ridursi il personale – la pianta organica ha registrato un calo di un quarto negli ultimi 7 anni, con una perdita di più di 500 figure professionali – e i suoi costi.

Non sarebbe forse utile mettere a bilancio – come parte del «rilancio» – anche più risorse per la nostra produzione statistica?

Mentre il Paese galleggia, in attesa di sapere chi ci perderà di più, chi non sarà in grado di ripartire, chi resterà nella condizione di marginalità o precarietà di prima, la classe politica pensante ondeggia, distratta da vicende poco amene.

La cacofonia degli interventi di chi con spirito civico propone e suggerisce direzioni di indirizzo, politiche e misure, non pare lasciare traccia sullo stagno della palude. Sassolini che dopo qualche salto vanno a fondo.

I partiti della sinistra, poi – tutti, nessuno escluso – paiono muti di fronte allo sforzo che appare soverchiante e guardano indietro, cercando nei polverosi cassetti delle idee intuizioni lungimiranti. Alla ragione statistica, invece, non viene data attenzione degna.

E così, il presente ci appare come scaduto, come se volessimo tenerlo a distanza. Meglio ricordare le potenzialità del keynesismo d’antan o dello spirito del dopoguerra, piuttosto che guardare ai numeri, scavare nei dati e chiedere di più alla nostra immaginazione.

La ragione statistica non s’accorda con quella politica.