Queste settimane sono state funestate per la scena non solo dal coronavirus con le sue tragiche ricadute di chiusure e annullamenti, ma anche da una serie di lutti, amari o davvero incolmabili. Come è il caso della scomparsa di Cristina Pezzoli. La regista si è spenta venerdì scorso, a 57 anni, a Pistoia dove si era stabilita (e dove aveva diretto il teatro pubblico nei primi anni 2000). Era una vera forza della natura: allieva di Massimo Castri giovanissima, ne apprese la forza e il senso del proprio lavoro. Irruente e profonda, riusciva a costruire personaggi di grande complessità e insieme nitore. Soprattutto assieme alle attrici con cui intesseva fecondi rapporti creativi. Come ha dimostrato L’attesa (di Remo Binosi) con le straordinarie Maddalena Crippa e Elisabetta Pozzi, che ogni sera si scambiavano i ruoli lungo le numerose repliche. O con una serie di grandi signore della scena, da Isa Danieli (Tomba di cani e Filumena Marturano) a Milva, che la volle per cantare ancora il suo Brecht dopo la morte di Strehler. Con una collaborazione privilegiata anche per la drammaturgia, dove da sempre aveva scelto di muoversi a fianco a Letizia Russo. È stata una grande artista, innovatrice e coraggiosa, anche nelle regie musicali che potevano turbare lo spettatore tradizionale, come è successo pochi mesi fa a un suo Don Giovanni a Pisa.

MA A FIANCO a Cristina Pezzoli,ci sono altri che lasciano un vuoto nella memoria della scena, e che certo avranno diritto, magari a teatri riaperti, a un ricordo pubblico e collettivo. Ha avuto giustamente grande eco la scomparsa di Michel Piccoli, grande star dello schermo e di impegno civile, ma di lui, riguardo al palcoscenico, vale la pena ricordare che è stato primo protagonista e traino, con il regista Patrice Chereau, di almeno due testi fondamentali di Bernard Marie Koltès, Lotta di negro contro cani e Ritorno al deserto, entrambi pungenti quanto crudeli sul rapporto tra l’Africa coloniale e la «madre patria» francese.

Bruce Myers

Un grande tessitore di fili tra realtà e apparenza, tradizione e futuro, tra sogno e realtà, è stato certamente Bruce Myers, che si è spento a Parigi, a 78 anni, vittima del Covid-19, il 15 aprile scorso. Nato in Inghilterra, allievo alla Rada e poi attore alla Royal Shakspeare Company con Peter Brook, cui fu compagno nel trasferirsi a Parigi alle Bouffes du Nord. Molto noto anche in Italia per essere stato tra i protagonisti di molti lavori di Brook, dal Sogno shakespeariano al Mahabharata ad Amleto, instancabile anche da noi a portare metodo, seminari, illuminazioni a nuove generazioni di attori, con lucidità di vedute e un elegante understatement (indimenticabile un pomeriggio a Prato, in cui per rispondere sul suo passaggio dalla RSC alle Bouffes, usò un pensiero di «una collega, con cui sono stato per un certo tempo, forse la conoscete, Helen Mirren»…).

A METÀ maggio invece è morto a Berlino, a 89 anni, Rolf Hochhuth. Il suo nome dice poco allo spettatore di oggi, ma nel 1963 un suo testo, Il vicario, incendiò le platee di tutta Europa. Per la prima volta, e a pochissimi anni dalla sua morte, a papa Pio XII veniva rinfacciato lo scarso impegno nella difesa degli ebrei dalla follia nazista. A Roma, nel teatrino di via Belsiana, le forze dell’ordine fermarono letteralmente Gian Maria Volonté che aveva preso l’iniziativa (col fratello Claudio, Giacomo Piperno, e un giovanissimo Carlo Cecchi, che aveva anche ritradotto e adattato il testo). Fu un caso internazionale (Costa Gavras successivamente ne fece anche un film); e anche se la vena di Hochhuth si era poi via via appannata, il suo nome resta un simbolo.