La risposta di Cristina Fernández de Kichner è arrivata appena qualche minuto dopo la sua condanna a sei anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per amministrazione fraudolenta. Non c’è dubbio che l’avesse preparata prima, dal momento che la sentenza «era già stata scritta». E scritta in assenza di qualsiasi messaggio, documento o testimonianza da cui emergesse una qualunque istruzione o suggerimento o allusione della vicepresidente in relazione agli appalti di lavori stradali a Santa Cruz al centro del processo Vialidad.

UNA SENTENZA pronunciata da un tribunale presieduto dallo stesso giudice, Rodrigo Giménez Uriburu, che giocava a pallone insieme al pm Diego Luciani nella tenuta di Mauricio Macri e il cui obiettivo non era quello di combattere l’indubbia corruzione registratasi anche sotto i governi kirchneristi, ma quello di ottenere la proscrizione politica della vicepresidente.

«MAFIA GIUDIZIARIA» l’ha definita Cfk, evidenziando come «il potere economico e mediatico», ben rappresentato dal potente Gruppo Clarín, costituisca una sorta di «Stato parallelo» impegnato a controllare la dirigenza politica argentina. Quella peronista, ovviamente, di cui Cristina – moglie dell’ex presidente defunto Néstor Kirchner, poi presidente lei stessa e quindi vice di Alberto Fernández, da lei scelto benché poi costantemente avversato – è l’indiscussa figura di spicco.

E in sua difesa si sono subito schierati, tra molti altri, Miguel Díaz-Canel, Andrés Manuel López Obrador, Xiomara Castro de Zelaya, Luis Arce, Dilma Rouseff, Ernesto Samper, Pablo Iglesias, tutti decisi a condannare quella giudizializzazione della politica, universalmente nota come lawfare, diventata un’arma irrinunciabile delle destre in tutto il continente.
«Mi vogliono in carcere o morta», ha denunciato Cfk, in riferimento all’attentato da cui è miracolosamente scampata (l’aggressore ha sparato ma il colpo non è partito) il 2 settembre scorso.

Ma lei non cercherà la scorciatoia dell’immunità parlamentare alle prossime elezioni: «Non mi candiderò ad alcuna carica», assicura. «Per te – ha commentato rivolgendosi a Héctor Magnetto, amministratore delegato del Gruppo Clarín -, è un’ottima notizia, dal momento che dal 10 dicembre del 2023 non godrò più dell’immunità e potrete dare l’ordine ai vostri sbirri di chiudermi in prigione» (dove in realtà non finirà, avendo per quella data già compiuto 70 anni).
«La condanna reale», però, non è tanto il carcere quanto l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e non è altro, spiega Cfk, che una condanna del «modello economico» del peronismo, del suo «impegno con i diritti della gente».

TUTTAVIA, sulla bontà di quel modello la popolazione argentina avrebbe molto da ridire, in mezzo ai brutali piani di aggiustamento imposti dal Fondo monetario internazionale e accettati dal governo del Frente de todos – tra le proteste popolari – per ripagare il debito contratto da Macri. Con le conseguenze note a tutti: un livello di povertà oltre il 40%, salari al di sotto della soglia di povertà per la metà dei lavoratori, l’aumento del precariato, la crescita delle disuguaglianze sociali e i piani assistenziali che non bastano neppure a coprire le necessità di base. Senza contare l’estrattivismo dilagante, con il governo impegnato a sfruttare fino all’ultimo centimetro cubico di idrocarburi nella regione di Vaca Muerta e a promuovere l’esplorazione sismica petrolifera lungo la costa atlantica bonaerense.

NON A CASO, lo stesso martedì in cui Cfk veniva condannata, la Unidad Piquetera si trovava mobilitata contro il ritardo nel pagamento dei buoni previsti dal programma Potenciar trabajo, anch’esso sotto la mira dei programmi di aggiustamento, e la Asamblea por un Mar Libre de Petroleras convocava una protesta contro il via libera della Corte di appello di Mar del Plata all’esplorazione sismica offshore di fronte alla città.