Nabila Fawzi parla con un filo di voce davanti alla telecamera della tv satellitare Sat 7. «Era notte, stavamo per addormentarci quando all’improvviso qualcuno ha bussato con violenza alla porta di casa. Mio figlio ha aperto e gli hanno sparato subito alla testa, dopo qualche secondo hanno ucciso mio marito. Ho urlato perché li avete uccisi? Sono usciti senza dire una parola». Il racconto di Nabila Fawzi, 66 anni, di el Arish, è uno dei più drammatici fatti dalle molte centinaia di cristiani in fuga dal penisola del Sinai sotto la minaccia dell’Isis. Vanno verso quattro governatorati: Ismailia, Qalybiya, Assiout e il Cairo. Il governo, sollecitato dal raìs Abdel Fattah al Sisi, cerca di rassicurarli sull’impegno a mettere fine all’emergenza e a consentire al più presto il loro rientro a el Arish. Tra gli egiziani cristiani però pochi si fanno illusioni, nessuno crede ai proclami dei capi delle forze di sicurezza che si affannano a descrivere la situazione come «sotto controllo». La branca locale dell’Isis – gli ex-“Ansar Beit el-Maqdes” – ha preso il controllo di fatto del nord del Sinai. Le “vittorie” quasi quotidiane che il generale Mustafa al Razaz, capo del comando militare del Sinai, annuncia nella «guerra al terrorismo» sono soltanto degli annunci propagandistici che non riflettono la realtà sul terreno. Spietato con gli oppositori politici, laici e islamici, al Sisi si conferma incapace di bloccare l’Isis, la vera minaccia che incombe sul Paese.

Lo Stato islamico da tre anni e mezzo conduce una sanguinosa guerriglia contro l’esercito egiziano che ha fatto centinaia di morti. A loro volta le forze armate hanno fatto strage di “takfiri”, il termine usato dalle autorità per indicare i jihadisti. Secondo il portavoce militare ne sono stati uccisi circa 500 tra settembre e l’inizio di febbraio. Se ciò è vero, allora l’Isis deve poter contare su migliaia di miliziani visto che continua a dettare legge nel Sinai. Nei giorni scorsi gli uomini del Califfato hanno fatto circolare in rete un video di una ventina di minuti che, facendo riferimento all’attentato alla chiesa di San Pietro e Paolo al Cairo dello scorso dicembre (29 morti), minaccia tutti i copti: «Voi, crociati d’Egitto, questa operazione che vi ha colpito nel vostro tempio, è solo la prima, dice nel filmato un uomo mascherato, e sarà seguita da altre operazioni, se Dio lo permette. Voi siete il nostro primo obiettivo e la nostra pesca preferita». Subito dopo sono scattati gli agguati. Nell’ultimo mese sono stati uccisi sette copti a el Arish senza che il governo abbia fatto passi concreti per difendere la comunità cristiana fuori dal Cairo. «Non resterò qui a farmi ammazzare, quella gente non ha misericordia. Ho chiuso per sempre il mio ristorante a el Arish e sono venuto qui. Non voglio correre rischi» ha spiegato un uomo, Rami Mina, ai giornalisti che l’hanno intervistato al suo arrivo a Ismailiya. Munir Adel, un altro cristiano, ha riferito che a el Arish l’Isis ha diffuso un elenco con i nomi di coloro che saranno uccisi se non andranno via dalla città costiera. «Mio padre è il secondo nome in quella lista che comprende tutti i cristiani», ha raccontato mentre, in fila davanti alla Chiesa luterana di Ismailiya, attendeva di conoscere la sua nuova sistemazione.

Da parte delle autorità religiose islamiche giungono comunicati di solidarietà ai cristiani che compongono circa il 10% degli oltre 90 milioni di egiziani. Ma anche i musulmani sono in pericolo perché accusati dall’Isis di non vivere secondo le regole della religione. Ahmad Hamed, un giovane musulmano, è stato bruciato vivo dai jihadisti nei pressi di Rafah perché accusato di essere un “apostata” e un “collaboratore” dell’esercito. Tra il 2013 e il 2014 ci sono stati una ventina di casi di sgozzamenti e decapitazioni di presunti informatori dei servizi di sicurezza. E ora l’Isis fa sentire la sua presenza anche con posti di blocco in cui ammonisce le donne a non uscire senza il niqab, il velo integrale. Prese di mira sono in particolare le insegnanti che viaggiano sugli autobus che collegano el Arish a Rafah e Sheikh Zuweid. Il governatore del Sinai settentrionale, Abdel Fattah Harhour, ha ordinato alle insegnanti di non recarsi a scuola fin quando le strade non saranno rese sicure