Se il cinema romeno è stato negli anni duemila uno dei più innovativi, influenti e premiati, un ruolo rilevante l’ha avuto Cristi Puiu. Un cineasta, noto soprattutto per La morte del signor Lazarescu, che ha ricevuto meno riconoscimenti del connazionale Cristian Mungiu, Palma d’oro a Cannes per 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, ma determinante nell’imporre uno stile di lunghi piani sequenza per rappresentare il realismo della vita quotidiana della Romania post ’89. Giovedì arriva nelle sale Sieranevada, in concorso un anno fa a Cannes e in anteprima italiana a gennaio al Trieste Film Festival. Una storia familiare tra commedia e dramma, ambientata quasi tutta dentro un appartamento durante la commemorazione funebre del capofamiglia, tra affetti, rancori, segreti, zie nostalgiche, amiche ubriache, zii fedifraghi e cugini cospirazionisti.

Partiamo dal titolo «Sieranevada», che può essere non immediatamente comprensibile…

Nel cinema e nella letteratura il titolo è sempre stato qualcosa da prendere seriamente, un’etichetta che ha a che fare con ciò che c’è dentro. Prendiamo Delitto e castigo o Guerra e pace, entrambi gli elementi sono presenti, ma non dicono molto. Altri titoli sono più precisi, per esempio Uno, nessuno, centomila, che suggerisco spesso di leggere agli attori. Il punto di partenza del film è il funerale di mio padre nel 2007, così pensavo che il titolo dovesse indicare un luogo, un luogo dove sei e dove qualcuno non c’è, perché è altrove oppure è morto. Allo stesso modo La morte del signor Lazarescu doveva rappresentare un evento o Aurora un momento della giornata. Poi esistono due Sierra Nevada al mondo e questo aggiunge confusione. In più è uguale in tutte le lingue, in modo da combattere la brutta abitudine dei distributori di tradurre i titoli liberamente.

Nel film tutto gira attorno alla commemorazione funebre del capofamiglia.

Quando muore qualcuno la gente parla di tante cose che non hanno a che fare direttamente con il defunto, forse non osa per una sorta di pudore. Ricordo che durante il funerale litigai con la zia Evelina, comunista, ed era come se ciascuno vivesse dentro una sua fiction, preso dalle storie che ci raccontiamo anziché dai fatti che accadono. Ho girato a gennaio 2015 e ho voluto aggiungere anche riferimenti agli attentati a Charlie Hebdo e al terrorismo.

In questi anni, lei, Cristian Mungiu, Corneliu Porumboiu, Radu Muntean, Radu Jude e gli altri siete stati definiti il nuovo cinema romeno…

È un’etichetta, una creazione del Festival di Cannes, una semplificazione che aiuta a scrivere, ma risulta fuorviante. È iniziato tutto nel 2001 quando andai alla Quinzaine con il mio primo film, Marfa si Banii – Stuff and Dough, e l’anno dopo ci furono quelli di Mungiu e Muntean. Il mio era diverso dagli altri due; avevo studiato a Ginevra, la Nouvelle vague, mi aveva molto emozionato il verismo di John Cassavetes; riferimenti diversi da chi aveva studiato in Romania su Tarkovskij, il cinema ceco e il Neorealismo. Il successo di Lazarescu al Certain regard nel 2005 fu come un segnale per tutti: si doveva andare a Cannes e per farlo bisognava girare i film in quella modalità, con la camera a mano e i piani sequenza. Da noi in Romania vincere l’Oscar sarebbe come vincere i Mondiali di calcio, e poi per importanza c’è la Palma d’oro. Il più intelligente di tutti è stato Mungiu che è riuscito a vincere la Palma. Ma in realtà noi registi non ci frequentiamo, abbiamo interessi diversi: Mungiu è più mainstream, Jude è ancora giovane, mi è piaciuto Il piano più basso di Muntean che mi ha toccato, Porumboiu è quello che sento più vicino, anche come visione complessiva. Ho comunque fiducia sul fatto che riusciremo a cambiare, in modo da sconfiggere il nostro «provincialismo». L’etichetta è una situazione temporanea, conta quanti guarderanno i nostri film tra dieci anni. Per me l’inizio del cinema romeno nuovo è con Reconstiturea di Lucian Pintilie del 1968, fondamentale.

Lei ha iniziato studiando pittura.

Non sono partito con l’intenzione di diventare regista. È successo e mi è piaciuto, mi sono reso conto che è come una terapia e per questo continuo. Avevo cominciato a interessarmi di pittura perché mi incuriosiva. Da ragazzo non mi importava molto del cinema, anche se guardavo i film in tv il sabato sera, soprattutto i western. A 17 anni un amico mi portò a vedere L’angelo sterminatore di Bunuel e mi chiesi: «che cos’è questo?». È cominciato così, ho iniziato a interessarmene.

Quali sono i suoi registi di riferimento?

Ci sono molti film che mi piacciono, a seconda dei giorni o delle situazioni nomino titoli diversi. Mi interessano più i singoli film degli autori, con l’eccezione di John Cassavetes: la scoperta delle sue opere mi ha segnato in modo profondo. Avevo già 28 anni, ero a Ginevra e un compagno della scuola di cinema mi passò una videocassetta di A woman under influence (Una moglie) in cambio di Full Metal Jacket. Lo vidi tre volte in due giorni, in me accadde qualcosa e dissi: è quel che voglio fare. Non c’era internet, così andai in biblioteca, lessi tutti quello che trovai su di lui, volevo conoscerlo il più possibile.

Qual è il suo metodo di lavoro come regista?

Non è vero che il regista fa tutto. Divido i registi in due categorie: chi cerca di capire com’è il mondo e chi di spiegare com’è il mondo. I secondi sono la maggioranza e li detesto, fanno solo propaganda. Vedo il regista come un pescatore, sceglie il posto, prepara tutto ciò che serve, ma poi deve aspettare che le cose accadano e che non dipendono solo da lui. Se riesci a mettere un po’ di vita in un film sei in paradiso, altrimenti il pubblico guarda solo la tua prestazione.

Come mai gira sempre film che arrivano quasi a tre ore di durata?

Cerco anche di girare opere di una lunghezza più contenuta, ma… non ci riesco praticamente mai. Quando scrivo non penso alla durata finale. Io la paragono a una storia d’amore, all’inizio non puoi prevedere come si svilupperà la relazione. Un produttore voleva che Sieranevada fosse più corto e voleva farmi togliere la scena iniziale. Secondo lui quei sei minuti erano inutili, ma per me non lo erano e ho tenuto duro finché non ho vinto.