La moderazione non è una qualità del presidente turco Erdogan, tanto meno di quello statunitense Trump. Nel pieno della crisi diplomatica tra i due storici alleati Nato e con Ankara che guarda a Mosca come nuovo riferimento in Medio Oriente, un secondo mandato d’arresto è stato spiccato ieri dalle autorità turche nei confronti di un altro dipendente del consolato Usa a Istanbul.

I rapporti tra Washington e Ankara non sono rosei da tempo. A monte la richiesta tuttora inevasa di estradizione dell’imam Fethullah Gülen (che il governo turco ritiene la mente del fallito golpe del luglio 2016) e l’appoggio statunitense alle Ypg kurde per l’operazione in corso a Raqqa.

L’ultima goccia è caduta mercoledì scorso quando la Turchia ha arrestato Metin Topuz, dipendente turco del consolato Usa a Istanbul con l’accusa di legami con Hizmet, il movimento di Gülen, e in particolare con un ex procuratore e quattro ex capi di polizia che portarono avanti nel 2013 la maxi inchiesta sulla corruzione che toccò familiari e alleati di Erdogan.

Non troppo immediata è giunta la reazione americana: Washington ha sospeso domenica l’emissione di visti per i cittadini turchi (esclusi i casi di immigrazione), mossa a cui Ankara ha risposto con un’identica misura.

Domande di visto congelate, atto non da poco se si pensa che nel 2016 i visti per turismo, studio, salute e lavoro temporaneo per gli Usa sono stati oltre 113mila. Ora, a tenere vive le tensioni, arrivano la convocazione da parte del ministero degli esteri turco del sottosegretario dell’ambasciata Usa a Ankara, Philip Kosnett, e un secondo mandato d’arresto per un altro funzionario turco del consolato Usa.

Arresti dal sapore di ricatto, commentano diversi analisti, nello stile di quelli perpetrati contro 55 cittadini tedeschi (di cui 12 per motivi politici): Erdogan vuole Gülen e pretende dagli Usa l’abbandono del sostegno militare alle Ypg, le unità kurdo-siriane vicine al Pkk. Non è un caso che la nuova campagna militare turca in Siria arrivi nei giorni caldi della crisi con Washington.

Una seconda operazione terrestre, un’invasione vista l’assenza di via libera internazionali, annunciata sabato e partita ieri con i primi carri armati entrati nella provincia di Idlib.

A coprire dall’alto l’operazione – ufficialmente lanciata in chiave anti-terrorismo, ovvero contro i gruppi che ruotano intorno all’ex Fronte al-Nusra, oggi Hayat Tahrir al-Sham – sono i jet russi e non quelli Usa.

Ovviamente l’obiettivo non sono gli ex alleati (la Turchia ha sostenuto per anni la formazione qaedista, così come altre fazioni di ispirazione islamista e salafita) ma premere sull’acceleratore della cancellazione del progetto kurdo di unificazione dei cantoni di Rojava.

Sul tavolo di Astana, alla fine del mese, infatti, Ankara intende portare la richiesta di una quinta zona di de-escalation, Afrin, uno dei tre cantoni oggi fisicamente diviso da quelli di Kobane e Jazira (dove per de-escalation si intenta non una zona franca dagli scontri armati ma un vero e proprio assedio della comunità kurda).

In tale scenario l’operazione cominciata ieri serve ad ampliare una presenza strategica nel nord del paese e ad accreditarsi agli occhi della nuova controparte, la Russia. Idlib è oggi un enorme bubbone jihadista, a fronte delle numerose evacuazioni di miliziani islamisti iniziate lo scorso anno e figlie di accordi tra i gruppi di opposizione e Damasco. Sono tutti concentrati nella provincia nord-occidentale.

E l’intervento turco potrebbe «salvarli»: l’operazione coinvolge unità dell’Esercito Libero Siriano che, come raccontato con dovizia di particolari anche fonti per nulla vicine a Damasco (quali ex vertici militari Usa), hanno finito per mescolarsi agli islamisti rendendo impossibile, a un certo punto del conflitto, distinguere tra moderati e jihadisti.

Dietro le quinte si parla già di possibili negoziati per trasferire gli islamisti fuori da Idlib, ricollocarli in Turchia o – al momento della «pacificazione» – farli partecipare al futuro politico della Siria o almeno di una sua parte. Accordi, secondo fonti della stampa libanese, sarebbero già in corso tra esercito turco e Tahrir al Sham per evitare scontri veri.