Fra i registi francesi, Cédric Klapisch si colloca in un’aerea post-Lelouch dove le ambizioni autoriali riescono sempre a dialogare agevolmente con le esigenze del botteghino. Un cinema alto-borghese per vocazione, caratterizzato da piccole ossessioni formali ricorrenti, tic tematici e un certo gusto per i cast ampi, nei quali l’interazione fra gli interpreti possa fluire con verve classicamente boulevardier, nonostante la sua collocazione generazionale lo voglia cantore d’inquietudini e spostamenti.
Quando funziona, dunque, il cinema di Klapisch risulta gradevole e frizzante e persino le sue ambizioni, calibrate nella modestia di manierismi non troppo ingombranti, riescono a farsi accogliere come parte integrante di una pratica filmica media che sogna a canonizzazione autoriale. Quello di Klapisch, lo si è compreso, è un cinema nel quale l’equilibrio delle singole componenti, risulta sempre molto delicato.

La retorica è dietro l’angolo, il reducismo sentimentale un’infezione per la quale il regista non ha ancora trovato un vaccino e, soprattutto, i suoi giochi a incastro corrono sovente il rischio di franare e portare alla luce la lettera della sceneggiatura. Rompicapo a New York, in questo senso, è un film esemplare per capire come il sistema Klapisch possa smettere di funzionare e replicare stancamente moduli che in altri lavori vantavano un minimo di freschezza. La trasferta statunitense di Klapisch, quasi una verifica per studiare la possibilità d’esportare un modello di commedia, porta alla luce invece le componenti inerti.

Trentenni alle soglie dei quaranta, separazioni e divorzi, problemi di denaro e figli, i dispetti del cuore e così via. Tutto l’armamentario della commedia generazionale borghese si presenta al gran completo tentando di alimentare un credibile ritratto di esistenze che si collocano sempre fra le cose e le situazioni piuttosto che dentro di esse. Ovviamente Klapisch «gira bene», cosa che più o meno lo salva quasi sempre, ma si comprende perfettamente che il pilota automatico lo guida molto di più del desiderio.

Probabilmente è proprio questo affidarsi alla formula piuttosto che al gusto o all’istinto, a frenare la riuscita di Rompicapo a New York, abbandonando così gli interpreti nella rete di una sceneggiatura che si vuole complessa ma che risulta solo inutilmente complicata. Non a caso, laddove il titolo francese rimanda a un rompicapo cinese, la traduzione italiana preferisce puntare l’attenzione sull’ambientazione newyorkese. Film d’attori, ovviamente, nel quale compare anche Benoît Jacquot e la splendida Sandrine Holt di House of Cards, Rompicapo a New York tira in ballo Schopenhauer e Hege ma alla fine risulta tristemente immobile, pur essendo un film in perenne stato d’agitazione.

Che dalle nostre parti ci siano schiere di mestieranti che darebbero un braccio per sceneggiature come quella del film di Klapisch, o per «girare» come lui, non significa niente. Rompicapo a New York è un film s di maniera, nel quale si percepisce il disinteresse del regista per la sua materia, dove gli interpreti tentano di salvare il minimo sindacale garantito, iniettando un minimo di divertimento che, ahiloro!, resta sempre latitante sullo sfondo, come un ospite cui si è dimenticato di notificare l’invito a cena.