Qualche scricchiolio si era già sentito a fine 2007, ma fu nel marzo 2008 che Bear Stearns, una delle «big five», le cinque banche più grandi degli Usa, dichiarò fallimento, in seguito all’esplosione della bolla immobiliare legata ai mutui subprime.

Nei mesi successivi, toccò a Fannie Mae e Freddie Mac, e mentre in Europa il governo inglese era costretto a nazionalizzare Northern Rock, a settembre crollò anche Lehman Brothers, dando il fischio ufficiale d’inizio alla grande crisi, che dagli Usa è subito rimbalzata in tutto il pianeta, investendo in particolar modo il continente europeo.

Naturalmente, è difficile astrarre un periodo dal contesto processuale che lo determina ma senz’altro possiamo affermare come nel 2008 siano giunti al pettine i nodi di una crisi che ha le proprie radici addiritttura negli anni Settanta del secolo scorso, quando si afferma la dottrina liberista e i processi di finanziarizzazione dell’economia divengono progressivamente la cifra della società capitalistica contemporanea.

È una crisi profonda, più strutturale che ciclica, tant’è che le risposte messe in campo dall’establishment economico-finanziario e dalle élite politiche non comportano, forse per la prima volta, alcuna discontinuità, bensì la spinta a un loro ulteriore approfondimento.

Ciò che cambia davvero in questi dieci anni sono le condizioni di vita delle popolazioni, con un accentramento della ricchezza e una diseguaglianza sociale che non ha precedenti. E mentre la contraddizione ecologica assume i connotati di una drammatica realtà con cui fare i conti per i prossimi decenni, la vita delle persone si va sempre più configurando all’insegna della precarietà: del lavoro, della coesione sociale, del futuro individuale e collettivo.

Muta profondamente anche il segno della democrazia, con i diritti trasformati in variabili dipendenti dai profitti e le istituzioni in sedi di ratifica di decisioni prese in luoghi «altri» dalle stesse.

Si afferma la teologia dei mercati, entità impersonali che dominano e determinano la vita delle persone e della società, mentre lo shock del debito diviene l’indiscussa narrazione dominante. E, come finta risposta alla stessa, si affermano sovranismi nazionalistici, che fanno del razzismo la propria cifra identitaria.

Siamo dunque costretti dentro un percorso immodificabile e dentro un orizzonte di rassegnazione sociale? Dobbiamo accettare come inoppugnabili la compressione di tutti i diritti, la mercificazione dei beni comuni e la privatizzazione dei servizi pubblici? Dobbiamo chiamare «inevitabile tragedia» il crollo del viadotto Morandi a Genova?

C’è chi pensa di no e ritiene che un’analisi approfondita di questo ultimo decennio possa contribuire a costruire una narrazione differente, sia sulle cause che hanno prodotto la crisi, sia soprattutto sulle possibili risposte da dare alla stessa.

***

È quanto propone Attac Italia nella sua tradizionale università estiva (14-16 settembre a Cecina Mare (LI) – info qui) dal significativo titolo. «Crisi: 10 anni bastano».

Cinque seminari su come sono cambiate l’economia, il lavoro, la relazione con la natura, la società e la democrazia, con un dibattito conclusivo su «I movimenti sociali fra crisi e alternative».

Ne rifletteranno assieme Ciccio Auletta, Marco Bersani, Matteo Bortolon, Emiliano Brancaccio, Michele Cangiani, Salvatore Cannavò, Rita Cantalino, Antonio De Lellis, Nicoletta Dentico, Fausto Gianelli, Roberto Guaglianone, Tatiana Montella, Stefano Risso, Marco Schiaffino e Guido Viale.

Una buona occasione per prepararsi a un caldo autunno.