All’indomani dell’annuncio della sua costituzione, agli occhi della Commissione europea il fondo Atlante resta ancora tutto da scoprire: “Abbiamo visto gli articoli di stampa – fa sapere un portavoce Ue – ma in questo momento abbiamo solo informazioni preliminari, e non siamo nella posizione di poter valutare l’operazione”. Nel mentre, la principale agenzia di stampa italiana dà voce alle inquietudini del mondo bancario e puntualizza: “Sono ancora diversi i dettagli da chiarire sul funzionamento dello strumento, sul suo impatto sui bilanci, e sui ruoli degli istituti coinvolti”.
Ricapitolando: l’Unione europea non sa, o fa finta di non sapere, come sarà strutturato il progetto della Sgr Quaestio – controllata al 37% dalla Fondazione Cariplo – con il docente di finanza aziendale alla Cattolica milanese Alessandro Penati (e Giuseppe Guzzetti, dominus di Cariplo e Acri) sul ponte di comando. Di più: nonostante che almeno la presentazione del fondo Atlante sia stata messa nero su bianco (si può leggere sul sito del Messaggero), l’essenziale cornice normativa di un progetto da almeno 6 miliardi di euro ancora non c’è.
La fretta nell’annunciare Atlante, subito dopo la riunione di lunedì scorso al Mef fra il superministro Padoan e un gruppo di banchieri potenzialmente interessati che però non hanno avuto granché di concreto da analizzare, ha come spiegazione prevalente il fortissimo odore di bruciato che arriva dal sistema bancario italiano. Alle prese con tre nuovi, imminenti aumenti di capitale – Banca popolare di Vicenza, Veneto Banca e Banco Popolare – per quasi 4 miliardi complessivi. Tanti soldi richiesti al cosiddetto “mercato”, che però non sembra avere molta voglia di investire in un settore che da anni è a fortissimo rischio: “I corsi azionari delle principali banche italiane quotate – ricordano gli stessi demiurghi di Atlante – hanno registrato una riduzione in media del 41% nei primi mesi del 2016”.
Di qui l’allarme rosso, lanciato da Guzzetti e Penati, quantomeno sugli aumenti di capitale delle due banche venete, con Bpvi che ha bisogno di un miliardo e mezzo almeno, e Veneto Banca di un miliardo. “I feedback raccolti in via preliminare da potenziali investitori istituzionali nelle fasi di pre-marketing, e la possibilità di non attivare la garanzia da parte dei membri dei consorzi, rendono molto probabile che una quota preponderante degli aumenti non venga sottoscritta”.
Le conclusioni sono una vera e propria chiamata a raccolta per sostenere il fondo Atlante: “Dovrà essere implementato tempestivamente, anche alla luce degli aumenti di capitale annunciati, allo scopo di evitare ripercussioni per l’intero sistema finanziario italiano”. In altre parole per evitare una, probabile, crisi sistemica. Al cui confronto il suicidio assistito del Monte dei Paschi, e i fallimenti di Banca Etruria & c., apparirebbero poca cosa.
Già scivolato a più riprese sulle banche, il governo Renzi non potrebbe certo permettersi un disastro del genere. Di qui, pena la sua stessa sopravvivenza, il tentativo di implementare il più possibile il fondo Atlante. Sia con le armi della politica – la riunione al Mef – che addirittura con quelle finanziarie della Cassa depositi e prestiti, sia pure con l’accortezza di lasciarla in posizione assai defilata per non incorrere nei divieti della Commissione europea.
Il problema, grosso, è che si deve fare in fretta. Molto in fretta. Così nei prossimi giorni gli istituti di credito convocati al Mef – i due big Unicredit e Intesa San Paolo a parte, poi Bnl, Bper, Bpm, Creval, Credem, Banca Popolare di Sondrio e lo stesso scricchiolante Banco popolare – dovranno riunire i loro cda, analizzare in dettaglio la maxi operazione, e dare poi il loro eventuale via libera a una partecipazione ad Atlante. Tanto necessaria, almeno secondo Penati e Guzzetti, quanto problematica: è bastato l’annuncio di lunedì perché Unicredit e Intesa San Paolo abbiano perso in una sola giornata dal 4 al 5%.