Il fuoco che sabato sera avvolgeva la sede dell’ambasciata saudita a Teheran è l’emblema della definitiva rottura tra due potenze regionali da anni impegnate in una guerra fredda, per procura, che le vittime le fa nei campi di battaglia altrui, Siria, Iraq, Yemen.

L’escalation della crisi arriva in un periodo caldo, a 20 giorni dalla (ipotetica) apertura del negoziato siriano, visto da molti come il potenziale strumento di stabilizzazione dell’area. Così forse non sarà: l’esecuzione del religioso sciita Nimr al-Nimr, arrivata dopo tre anni di prigionia, è il cristallino messaggio che l’Arabia saudita manda all’avversario Iran ma anche agli alleati occidentali.

Non è un caso che il boia abbia agito proprio ora: dopo mesi di “isolamento” saudita sulla questione siriana, con Riyadh impegnata a distruggere lo Yemen e Mosca che interveniva a gamba tesa a sostegno di Damasco, il 2015 si è chiuso con il colpo di mano di re Salman, il meeting delle opposizioni al presidente Assad che ha riproposto Riyadh come interlocutore obbligato perché burattinaio dei gruppi moderati e islamisti attivi in Siria. Riyadh c’è, dice la morte di al-Nimr, e userà l’impunità garantitagli dall’Occidente per dettare la propria agenda regionale. In Siria come in Yemen.

In tale contesto la rottura tra Teheran e Riyadh diventa guerra aperta. Se domenica il presidente iraniano Rowhani condannava con vigore l’assalto alle due ambasciate saudite nella capitale e a Mashhad («atto ingiustificabile») e la polizia arrestava 44 persone responsabili del lancio di molotov e la distruzione degli uffici, a dare la misura della rabbia iraniana è il leader supremo, l’Ayatollah Ali Khamenei: «Il sangue versato senza giustificazione di quel martire oppresso mostrerà i suoi effetti – ha detto in tv – I politici sauditi subiranno la punizione divina». Ma l’Ayatollah si è spinto oltre. Nel suo sito ha pubblicato l’immagine di un miliziano dello Stato Islamico in procinto di uccidere un ostaggio e quella di un boia saudita: «Qualche differenza?», la retorica domanda del leader supremo.

La crisi è aperta: lo dicono le fiamme alle ambasciate e lo slogan “Morte ai Saud” urlato dai manifestanti; lo dicono le minacce di rappresaglia delle Guardie Rivoluzionarie; lo dice la strada di Teheran ribattezzata “Sheikh Nimr al-Nimr Street” e che conduce proprio alla sede diplomatica saudita. Atti simbolici a cui seguono quelli concreti: l’Arabia saudita ha interrotto tutte le relazioni diplomatiche con l’Iran, cacciato lo staff diplomatico, sospeso il traffico aereo tra i due paesi e le relazioni commerciali e vietato ai propri cittadini di entrare in territorio iraniano.

Lo ha annunciato domenica il ministro degli Esteri saudita, Adel al-Jubeir, definendo la rottura delle relazioni come la naturale risposta agli attacchi contro le proprie ambasciate. Silenzio sulla strage commessa sabato dai suoi boia, tantomeno sull’uccisione dell’avversario politico al-Nimr: al-Jubeir si è limitato a dire che i processi – a differenza di quanto affermato da organizzazioni come Amnesty International – sono stati giusti e trasparenti.

Teheran non ha perso tempo e ha subito risposto: Riyadh, ha detto il portavoce del Ministero degli Esteri, «lega la sua sopravvivenza al mantenimento di tensioni e conflitti e prova a risolvere i problemi interni creandone altri nella regione».
Di certo la crisi diplomatica mediorientale ha messo in allarme le potenze impegnate oggi nella sponsorizzazione del dialogo siriano: il Dipartimento di Stato Usa ha ribadito la convinzione che «l’impegno diplomatico e la conversazione diretta rimangono essenziali per lavorare insieme oltre le differenze» e chiesto ai leader arabi di intervenire per far rientrare la crisi.

Più concreta la Russia che approfitta per infilare il piede anche dentro lo scontro Iran-Arabia saudita: Mosca si è proposta come mediatrice. «Se i nostri partner, sauditi e iraniani, dimostreranno di essere pronti a incontrarsi, siamo disponibili a fare da intermediari», ha detto una fonte governativa all’Afp.

Ma per ora il sasso che cade dalla montagna sta diventando una valanga: il prezzo del petrolio è subito salito, mentre gli alleati sauditi seguivano le orme del leader. Se gli Emirati Arabi hanno optato per una limitazione dei rapporti diplomatici con Teheran a causa dei numerosi rapporti commerciali con il paese, Bahrein e Sudan ne hanno annunciato ieri la sospensione e hanno cacciato gli ambasciatori iraniani.

Al-Nimr secondo gli Usa

Nel 2011 Wikileaks ha pubblicato una serie di 12 cablogrammi statunitensi che avevano come oggetto il religioso sciita. Redatti tra il 2006 e il 2010, descrivono al-Nimr come figura contraddittoria: la presa di distanza dall’Iran (che, parlando con un funzionario Usa, definiva mosso da interessi personali e quindi non necessariamente interessato a sostenere la sollevazione sciita in Arabia saudita) veniva considerata poco affidabile da Washington che vedeva in al-Nimr un potenziale futuro agente iraniano.

E, nonostante i cablogrammi lo descrivano come soggetto pacifico, contrario alle violenze, portatore di istanze di democrazia e uguaglianza, i servizi segreti Usa non hanno dimostrato particolare interesse a tutelarne la figura, dimostrando una volta di più come a muovere la strategia statunitense non siano le aspirazioni legittime dei popoli ma le ambizioni globali della super potenza.