Il quotidiano Libération affonda nella crisi. Malgrado una ricapitalizzazione di 18 milioni di euro lo scorso luglio, da parte dei nuovi azionisti di maggioranza, il finanziere Patrick Drahi e l’affarista-immobiliarista Bruno Ledoux, proprietà e direzione hanno fatto una “proposta” bomba alla redazione: soppressione di 93 posti di lavoro (su 250, di cui 180 giornalisti), cioè un taglio di un terzo di chi ha un contratto a tempo indeterminato, riduzione da 11 a 9 settimane di ferie, da dicembre nuovo contratto per tutti quelli che restano (lavoro su carta, web, in futuro radio, tv e anche per gli “avvenimenti” organizzati dal “marchio” Libération) e chi non ci sta «sarà licenziato a gennaio» ha precisato François Moulias, cogestore del gruppo editoriale. Inoltre, nell’inverno ci sarà il trasloco in periferia dalla sede storica a due passi da place de la République. La proprietà spera così di risparmiare 8 milioni di euro anno per gli stipendi, cercando così di limitare la deriva attuale di perdite giornaliere intorno ai 22mila euro, che hanno già fatto evaporare la ricapitalizzazione di luglio: Libération dovrebbe chiudere il 2014 con perdite per 20 milioni di euro.

E non basta: tutti i giornalisti e i tecnici del giornale dovranno firmare una «clausola di non denigrazione» della testata. Questo per evitare che si ripeta la rivolta dello scorso inverno, quando ai progetti di tagli della proprietà la redazione aveva opposto la pubblicazione di articoli e prese di posizione con una pagina giornaliera intitolata «Noi siamo un giornale», per contestare l’idea lanciata allora di trasformare la testata in un marchio commerciale, per poter sfruttare la bella sede a spirale di rue Béranger come un locale, da trasformare in luogo culturale – «il caffé Flore del XXI secolo» aveva detto Moulias – con relativo affitto di spazi per eventi di ogni tipo, anche commerciali. Per molti giornalisti, la durezza delle “proposte” della proprietà è semplicemente «una vendetta» per l’affronto delle pagine «Noi siamo un giornale».

La redazione è «sotto choc«. Ma, aggiunge un delegato sindacale, «la rivolta non serve a niente». Il direttore, Laurent Joffrin, giustifica il programma della proprietà: «La crisi della stampa, che colpisce duramente i quotidiani, ci obbliga ad adattare l’organico, come fanno molti giornali in Francia e nel mondo» (del resto anche Le Monde dovrà subire una ristrutturazione). Il nuovo quotidiano non seguirà più tutta l’attualità. Joffrin intende dividere il nuovo giornale in sei poli: Potere, Pianeta e Mondo, Futuro, Idee, Cultura e Next, il supplemento settimanale. Il web sarà sempre più con sezioni a pagamento, un pay–wall con qualche articolo gratis, nella speranza di aumentare gli abbonati sulla rete (ora sono 11mila). Dovrebbe venire potenziata anche la distribuzione a domicilio nelle grandi città (ora 25mila abbonati), mentre alcune attività, come la documentazione e la diffusione, verranno esternalizzate.

Per chi accetta entro fine novembre di dare le dimissioni ci sono 12mila euro di buonuscita. Se non si troveranno 93 persone, ci saranno licenziamenti. In qualunque modo si concluda questa dolorosa fase di ridimensionamento, il nuovo Libération sarà certamente molto diverso.

Nel giornale fondato da Jean-Paul Sartre, dove la critica era la materia prima, adesso viene imposta la clausola di non denigrazione, per chiudere la bocca a ogni espressione di dissenso nei confronti di scelte che proprietà e direzione presentano – anche qui, come fa il governo a livello nazionale – come la sola strada possibile, senza alternative.