«Invoca il tuo Buddha», Convoque seu Buda, è il titolo del terzo album di Kleber Cavalcante Gomes, che con il nome di Criolo e alle soglie dei 40 anni è una delle promesse meglio mantenute dell’inesauribile fucina musicale brasiliana. Le tre date italiane del suo tour hanno spezzato quest’estate la solita polverosa offerta dei palchi nostrani, dandoci l’occasione di parlare con lui del suo rap nel quale tutto si fonde, dal samba all’afrobeat, dal funky alla mpb (la musica popular brasileira, quella di Veloso e Gil, per intenderci), al reggae, all’ethiojazz, alla black Rio.

Le sue sono cronache urbane che parlano dello sciopero dei trasporti che impedisce al panettiere di andare a lavorare – «Io che odio tutto il mondo non vedo un’offesa nella manifestazione ma la possibilità di avere il pane caldo per ogni cittadino» (Fermento pra massa) -, di case di cartone abitate da “fratelli” che si fanno di crack (Casa de papelão), di feste smodate dell’upper class (Cartão de visita) guardate dal ragazzino che chiede soldi sotto un lampione «che si umilia e detesta».

Con lui sul palco, e negli ultimi due dischi (Convoque seu Buda, 2014 e l’acclamatissimo Nò na orelha, 2011) la crema della nuova scena paulista – Marcelo Cabral, Sergito Machado, Daniel Ganjaman, Guilherme Held nell’ultimo tour, in studio Thiago França, Kiko Dinucci, Douglas Germano – che suona tutto e instancabilmente definisce la nuova grammatica della musica di un gigante che non vuole più dormire.

Cominciamo dall’inizio, eri ancora un bambino quando hai iniziato.

Fin da piccolo provavo a imitare mia madre che canta: la musica che passavano le radio, i temi delle novelas degli anni 70 e 80, le pubblicità televisive, che allora erano molto curate, con temi ben fatti e jingles elaborati, i vinili che compravano i miei genitori. Quando avevo undici anni, un mio amico compose dei versi, quattro strofe, sulla sua preoccupazione di non passare l’anno. L’ho trovato magico, non avevo ancora percepito che si potessero combinare le parole. Cominciai a scrivere quello che succedeva durante il giorno, di amicizia, famiglia, finché un giorno ascoltai un pezzo molto lungo, in cui tutto rimava. Era un rap, ma io non lo sapevo. Sembrava che quella persona parlasse della mia vita, del mio quartiere, cominciai a capire le preoccupazioni dei miei genitori, di cosa parlassero in casa. Volli farlo anch’io. Ho passato due anni scrivendo, poi chiesi di cantare a una festa che non era una festa. Ti racconto il grado “quasi zero”: Il presidente dell’associazione degli abitanti di Jardim Manacàs – il quartiere dove vivevo, a Grajaù (sobborgo della zona Sud di São Paulo, ndr) -, che aveva un impianto con cui organizzava balli di strada e nelle scuole, volle montare un ballo per la consegna delle donazioni di cibo e vestiti dell’ufficio di assistenza sociale, «perché non sia triste, e i bambini che vengono a ritirare i pacchi si sentano in una festa», disse. Gli chiesi di cantare due pezzi, fu la prima volta che salii su un palco. Ci misi un mese per registrare la parte strumentale di quei rap, con una doppia piastra, quattro secondi alla volta. E presi il mio pacco: scarpe da ginnastica, una giacca per il freddo e un sacco per le cipolle pieno di cappelletti. Eravamo felici, perché avevamo cappelletti per un mese, e la fame era tanta. Avevo dodici anni, e non smisi più di cantare.

Il rap, allora, e le battaglie di freestyle della Rinha dos MCs, di cui tu sei fondatore.

Sono cresciuto a Grajaù, in un ambiente di ragazzi che facevano un rap molto politicizzato, che toccava temi sociali, razziali, politici, riguardanti non solo São Paulo , ma tutto il Brasile. All’inizio erano forti i gruppi di breakdance: ce n’erano almeno 10 per ogni MC. Ci si esprimeva di più con la danza: lo stile, i vestiti, il corpo comunicavano con grande forza. Per quanto riguarda la Rinha dos MCs, era il 2006, avevo 31 anni, ero disoccupato, con quasi 20 anni di hip hop alle spalle e un grande desiderio di vedere i giovani incontrarsi. Io e DJ DanDan – un grande attivista culturale e da 18 anni compagno di palco – immaginammo un incontro dove si suonasse solo vinile, che si stava abbandonando. Una festa in cui si suonassero rap che venivano dimenticati, che offrisse alle persone che non lo conoscevano un suono che noi conoscevamo e amavamo. È nata così la Rinha dos MCs, per promuovere la cultura del vinile e dare spazio ai giovani per il loro freestyle. Il prossimo anno organizzeremo un grande incontro per il decennale.

02storie_criolo f02_OK
Criolo con la sua band sul palco di «Eutropia 2015» a Roma (foto Giulia Razzauti)

Nuove e vecchie generazioni: hai inciso un disco con Emicida, uno dei più brillanti fra i giovani emergenti, e nei tuoi testi ricordi Sabotage, personaggio iconico del rap paulista, ucciso nel 2003 a neanche 30 anni.

Vidi Emicida alla Rinha dos MCs nella Casa do hip hop di Diadema, ci piacque molto e lo invitammo a venire nel nostro quartiere. Con Dj DanDan abbiamo creato l’ambiente adatto perché questi giovani possano mostrare il loro talento. Il mio ruolo è guardare, applaudire e promuovere giovani che hanno molto da insegnarmi. Fra i gruppi importanti per me, dei vecchi, posso ricordare i Facção central, usano testi molto forti e diretti, dicono la verità senza fare sconti. Uno degli scrittori e MC dei Facção central, Eduardo, ha lasciato il gruppo e ora sta facendo un lavoro solista, ha pubblicato alcuni libri e da poco un disco sulla stessa linea. I Racionais MC’s sono un riferimento per il 90% dei brasiliani, che piacciano o meno, raccontano São Paulo com’è. Hanno forza, non sono più tanto giovani, piuttosto dei giovani signori con delle idee, che conservano credibilità, rispetto e la visibilità di una lotta decennale. Potrei fare molti altri nomi, ma questi rappresentano scuole e cammini differenti di scrittura e di un’estetica sonora ricchissima. Sabotage era un illuminato, sintetizzava tutto nella sua persona: piace a chi fa rap gospel, gangsta, romantico, a tutti. Tutti vedevano in lui malizia e purezza. Questa è São Paulo, ma il Brasile è grande.

A un certo punto volevi smettere di fare musica, cosa è successo?

Quando ho compiuto 20 anni di carriera, ho detto a DanDan: «È dal 1988 che cantiamo e lottiamo, credo che sia il momento di stare insieme in un’altra maniera». Pensavo che se fosse dovuto succedere qualcosa, sarebbe già avvenuto, che il mio tempo fosse passato, e stessi occupando lo spazio dei più giovani. Allora un mio amico, Ricardo, il maggior attivista che io conosca per i temi ecologici e ambientali , e fondatore della Matilha Cultural, un grande spazio di cultura e espressioni artistiche, un’oasi nel deserto, mi disse «vuoi smettere di cantare? Va bene, ti presento Marcelo Cabral, che può aiutarti a registrare dei pezzi che restino per la tua famiglia, quelli che canti sempre per me, questi ritmi che nessuno sa cosa siano». Marcelo chiamò Daniel Ganjaman, e insieme cominciarono ad aiutarmi nella registrazione. A metà mi fermarono e mi dissero: «Vorremmo che tu vedessi la bellezza di quello che stiamo facendo, che te ne accorgessi». Nò na orelha è nato così.

«Nò na orelha» suona più “intimo” di «Convoque seu Buda», che pare più rivolto al sociale, al collettivo.

È intimo perché viene dal mio cuore, e dalla mia testa, perché ci è costato tanto sudore… Sono momenti diversi dello stesso cuore e della stessa testa, con un’identica preoccupazione. Nò na orelha viene dalla necessità che qualcosa non si perda. Dopo mi sono chiesto se registrare ancora. Io non ho bisogno di provare niente a nessuno, la musica conversa con il pianeta, non ha bisogno di una faccia, ma di un’intenzione. Dello sguardo su un Brasile che lotta per il cambiamento e sui governanti che non vogliono che accada. Se parlo con te di problemi sociali del Brasile, per certi versi può sembrare che stiamo parlando di anni ’70 e ’80: la sofferenza è la stessa, la mancanza di strutture, di posti dove tutte le creazioni, con dignità, si possano sviluppare. Io plaudo a chi ha lottato, e lotta, e ha conquistato alcuni cambiamenti, ma è ancora molto poco. Ogni volta le persone si organizzano, si riuniscono e lottano in maniera seria, ma l’influenza sul governo è davvero scarsa.

Quanto pensi sia importante la musica per questo?

La musica ispira, può essere il telaio per la tua tela. È uno strumento naturale, non c’è bisogno di preoccuparsene, lo è dal momento in cui il tuo sguardo decide che lo sia. Uno strumentale composto da qualcuno per il figlio, può colpire un’intera generazione aiutandola a scendere in strada a combattere i mostri che dobbiamo affrontare. Posso fare una canzone per sostenere una causa sociale e non avere quest’effetto. Per questo è importante contestualizzare, trasmettere alle persone un po’ di quello che vivi, in cui credi.

Hai scritto una canzone a sostegno della lotta del Cais Estelita, l’occupazione di vecchi locali portuali di Recife che si vogliono abbattere per costruire un enorme complesso residenziale fuori dal piano regolatore, la «nova Recife».

C’è un’Estelita in ogni posto del mondo: stiamo perdendo la nostra bellezza naturale, uccidendo le sorgenti, abbattendo alberi, sterminando specie animali per costruire case per gente ricca che già ne ha. Non parliamo di lotta per la sopravvivenza, della necessità di costruire una capanna altrimenti la mia famiglia muore. Stiamo parlando di quello che architetta la società moderna, egoismo e vanità. Tutto ciò che il denaro non può comprare, è un attacco al potere. Per questo è importante tutto, dal sorriso di un bambino ai racconti degli anziani, alla musica.

Chi è questo Buddha che invochi?

È la tua parte di equilibrio, di amore, è la speranza. Perché se abbiamo la speranza, lottiamo.