Accoltellato e torturato: è morto così Karar Nushi, modello e giovane attore iracheno, studente dell’Istituto di belle arti di Baghdad. Il suo corpo è stato ritrovato in un quartiere nord della capitale, sfigurato.

Per la polizia e gli amici si sarebbe trattato di un crimine d’odio, omofobia: il ragazzo dai lunghi capelli biondi aveva ricevuto minacce in passato per il modo di vestire, le amicizie femminili e l’intenzione di prendere parte ad un concorso di bellezza maschile.

Dettagli non ce ne sono: la notizia è stata riportata da alcuni media iracheni, mentre sui social amici e conoscenti accusavano radicali islamisti.

Non si tratta del primo omicidio con moventi simili: i casi più recenti hanno visto protagonisti gli islamisti dell’Isis, colpevoli di brutali pestaggi, gogne pubbliche e assassinii di persone accusate di omosessualità nelle zone occupate.

Ma ieri la stampa irachena ricordava come tali crimini caratterizzino sia la comunità sciita che quella sunnita, da anni. Di numeri non ce ne sono, l’ultimo rapporto di Human Rights Watch a otto anni fa: rapimenti, torture e omicidi. Hrw ha provato a dare un bilancio: 680 morti per omofobia tra il 2004 e il 2009.

In Iraq l’omosessualità non è reato penale, ma è comunque percepita come tale all’interno di una società patriarcale e tribale, legata alla religione musulmana che considera l’omosessualità contraria all’ordine naturale, come le altre religioni monoteiste.

Puniti sono lo stupro, gli atti osceni e le relazioni extraconiugali, categorie all’interno delle quali sono state giustificate le persecuzioni di omosessuali.

Due anni fa Amir Ashour, fondatore del primo gruppo Lgbt iracheno, è stato costretto a fuggire in Svezia dopo aver ricevuto ripetute minacce di morte. Eppure di piccoli gruppi, clandestini e invisibili, cominciano a comparirne.

Karar Nushi, il giovane attore ucciso a Baghdad
Karar Nushi, il giovane attore ucciso a Baghdad

 

Due settimane fa in alcuni quartieri di Baghdad sono stati affissi poster che fanno appello alla coesistenza di persone di diverso orientamento sessuale: tre coppie, una mista, una tutta al femminile e una al maschile, accompagnano un cuore fatto con le mani e messaggi che chiedono protezione e libertà di espressione della propria sessualità.

«Sono uguale a te, la diversità è la base della vita», si legge nei poster con i colori dell’arcobaleno, simbolo del movimento globale Lgbt.

Un atto nuovo e inatteso che vuole rompere il muro di gomma e silenzio che ruota intorno alla questione. Una questione che non riguarda solo l’Iraq, ma buona parte dei paesi mediorientali e 76 Stati del mondo dove l’omosessualità è illegale. In alcuni di questi è punita con la morte: Sudan, Iran, Arabia saudita, Yemen, Mauritania, Afghanistan, Pakistan, Qatar, Emirati Arabi, Nigeria e Somalia.

In Iraq si resta in silenzio, ben nascosti: la paura di esclusione sociale, oltre che di punizioni fisiche, prevale, amplificata dall’assenza di istituzioni statali in grado di proteggere dagli abusi, nonostante la nuova costituzione preveda protezione contro ogni discriminazione sulla base di sesso, religione, opinioni politiche, status economico e sociale.

Per questo lo scorso anno, nel luglio 2016, non furono pochi quelli che restarono sorpresi dalle parole del leader religioso sciita Moqtada al-Sadr che per la prima volta «apriva» alla comunità Lgbt, o almeno faceva appello allo stop alle violenze nei confronti degli omosessuali: definendole persone «con problemi psicologici», una definizione che all’Occidente potrebbe apparire molto poco tollerante, si è dissociato dalle violenze perpetrate nei confronti di persone che hanno «a prescindere il diritto di vivere».

Una svolta che per la società irachena è un passo importante, soprattutto nei confronti delle milizie sciite (Brigate della Pace) di cui è leader, in passato sono state accusate di crimini omofobi.

Un altro passo sono le prime discussioni mandate in onda da emittenti private irachene e kurdo-irachene in cui quello che è uno stigma sociale viene trattato per generare maggiore tolleranza.