I nazionalisti stanno mettendo il timbro, politico e simbolico, alla loro ascesa. Danno la caccia a Yanukovich, diffondono le sue carte e buttano giù le statue di Lenin e del generale Kutuzov. Dall’altra parte, nell’est del paese, si risponde gridando al golpe nazista, all’antisemitismo dei segmenti più radicali della rivolta e alle trame degli occidentali, oltre che ribadendo il legame con Mosca. L’Ucraina è lacerata e c’è chi ne ipotizza la scissione, ricordando che anche in Jugoslavia le cose erano iniziate più o meno così. Ma, non è automatico che l’ex repubblica sovietica si scinda.
Al momento, fino a prova contraria, pare di assistere a una sfida di posture, orientata a tracciare nuovi equilibri, in cui ognuno lambisce la linea rossa senza superarla. Il punto di tensione maggiore è la Crimea, contesto già storicamente sensibile. È l’unico lembo d’Ucraina dove i russi sono maggioranza etnica. Il loro peso demografico è all’incirca del 60% e c’è una lunga storia di frizioni con le minoranze ucraina e tatara, quest’ultima pari grosso modo al 15% della popolazione. Nel porto di Sebastopoli è inoltre ancorata la flotta russa sul Mar Nero, sulla base di accordi contratti dopo il crollo dell’Urss (1991) e rinnovati all’indomani della vittoria di Yanukovich nel 2010. L’intesa prevede che le navi di Mosca restino a Sebastopoli fino al 2042. I russi arrivano a chiedere l’unione con Mosca. L’hanno fatto anche ieri a Simferopoli, il capoluogo regionale, trovandosi però davanti un altro corteo, con una discreta presenza tatara, che ha rivendicato la coesione territoriale.
Le due manifestazioni si sono tenute davanti all’assemblea regionale, dove si discuteva sulla posizione da assumere davanti al regime change di Kiev. Non s’è messa agli atti l’ipotesi dello scisma, ma c’è chi vorrebbe ripristinare l’assetto dei primi anni ‘90, che assicurava un tasso di autonomia maggiore rispetto a quello odierno e prevedeva l’elezione di un presidente. Questa proposta è sul tavolo da prima che le cose a Kiev precipitassero. I politici russi della Crimea, già all’indomani dell’inizio delle proteste, lo scorso novembre, avevano chiesto a Yanukovich di reprimere senza indugi, rivendicando al tempo stesso più funzioni amministrative. Una doppia forma di pressione sul deposto capo dello stato, assecondata, come riportato da Radio Free Europe, da una campagna martellante organizzata da un’associazione, finanziata da non si sa chi, ma dal nome inequivocabile: Stop Maidan. I suoi attivisti hanno appiccicato sui muri delle città della Crimea manifesti in cui si denunciavano le pulsioni eversive del fronte anti-Yanukovich. Non basta. Il consolato russo a Simferopoli, negli ultimi tempi, ha intensificato la tradizionale politica di concessione allegra di passaporti russi, sebbene le autorità di Mosca smentiscano. Mentre a Sebastopoli la gente è scesa in piazza e ha preteso, a inizio settimana, la nomina di un russo a sindaco. La scelta è caduta su Alexei Chaliy, uomo d’affari, che ha subito annunciato la costituzione di ronde civili di autodifesa. Il fatto che Chaliy abbia passaporto russo, cosa che poneva qualche problema legale alla sua nomina, è stato tranquillamente bypassato.
Radio Free Europe ha riferito che verso il 10 di febbraio è giunto a Simferopoli Vladislav Surkov, eminenza grigia del putinismo. Il che suggerirebbe che Mosca, fiutando la fine di Yanukovich, abbia suggerito ai suoi referenti in loco di fare baccano, nel tentativo di usare la Crimea come grimaldello nella partita in corso sui nuovi equilibri politici del paese. Ma il Cremlino dispone di altre leve capaci di impedire ai nazionalisti di spostare radicalmente il baricentro verso l’Europa: l’energia, il debito che vanta verso Kiev, i rapporti commerciali, industriali e finanziari, come il potere degli oligarchi, che non vogliono troppe seccature con le riforme, né perdere la sponda del mercato russo. Verrebbe da pensare che la secessione della Crimea sia più una storia di tattica che un’opzione fondata, fermo restando che nulla va scartato.
Ciò che è certo è che sembra d’assistere a una replica di quanto avvenne nei primi anni ’90, sulla scia del crollo dell’Urss e della contestuale indipendenza ucraina. Nella regione, passata nel 1954 dalla Russia all’Ucraina per volere di Nikita Krusciov, che scaricò su Kiev il fardello del mantenimento della Crimea (all’epoca l’economia locale era a terra), emersero spinte centrifughe. I russi temevano l’ucrainizzazione e propugnavano l’unione con Mosca, con l’economia scricchiolante a cementare questo sentimento. Gli ucraini, dal canto loro, si opponevano. I tatari lo stesso, se possibile con maggiore fermezza: non volevano farsi governare da chi, durante la seconda guerra mondiale, li aveva deportati. L’accusa, si sa, fu quella di collaborazionismo con i nazisti. Allora l’emergenza rientrò. Stavolta?