«E la nave va…», verrebbe da dire, dopo che anche l’agenzia di rating Moody’s ha rivisto al rialzo le stime di crescita per il nostro Paese: +1,3% per l’anno in corso, idem per quello che verrà. E dopo gli ultimi dati Istat sull’occupazione. Ma davvero possiamo brindare per questo?

Secondo la nota agenzia di rating il cambio di marcia sarebbe stato innescato «dalla politica monetaria e di bilancio e da una ripresa più forte nella Ue». Un chiaro endorsement al presidente della Bce Draghi ed al suo Quantitative easing, com’è facile intuire.

Invero, questa spiegazione appare poco credibile, comunque non sufficiente. Lo dicono, da un lato, i dati sull’inflazione, dall’altro quelli sull’export. Due indicatori fondamentali per capire dove va l’economia del nostro Paese. C’è un nesso, infatti, tra inflazione bassa e crescita (molto sostenuta) delle esportazioni.

Ad agosto, stando agli ultimi dati forniti da Istat, l’indice dei prezzi al consumo ha fatto registrare una variazione dello 0,3% su base mensile e dell’1,2% rispetto a luglio 2016 (+1,1% a giugno). Con questi numeri, per il 2017 ci si dovrà accontentare di una crescita dei prezzi poco superiore all’1%. In termini generali, questo significa, molto semplicemente, che i consumi continuano a ristagnare perché i salari reali (al netto dell’inflazione) continuano a diminuire (-2,4% in otto anni). Interessante notare, a tal riguardo, che tra il 2015 e il 2016 l’Italia è stato l’unico Paese europeo in cui il costo medio di un’ora di lavoro è diminuito (-0,8%).

Paradosso: le merci non subiscono rincari significativi ma i lavoratori possono acquistarne sempre meno. Tutto questo, però, ha una sua logica, per quanto perversa: bassi salari, ovvero costo del lavoro più contenuto, equivale a più competitività delle nostre merci sui mercati esteri. Come dimostrano i saldi, davvero notevoli, della nostra bilancia commerciale: nel 2016 c’è stato un avanzo di 51,6 miliardi, il più rilevante da 25 anni a questa parte, il terzo risultato più alto in ambito Ue, dopo quello tedesco (257,3 miliardi) e dei Paesi Bassi (59,9). E non si tratta di un dato estemporaneo, passeggero: da qui al 2020 è prevista una crescita delle nostre esportazioni ad un tasso medio annuo del 4% (si stima che fra quattro anni il valore del nostro export sarà di circa 500 miliardi di euro). Tanto. L’Europa rimane ancora il principale mercato di sbocco per i nostri prodotti, ma nuove e maggiori opportunità si intravedono anche in Nord America ed in Asia (Cina, India e Indonesia, soprattutto). «La nave va…», è inconfutabile.

Considerato che nel 2016 il nostro Pil ai prezzi di mercato è stato di 1.672,438 miliardi, un valore dell’export pari a mezzo trilione di euro significa un terzo dello stesso. Detto diversamente: ogni anno, merci finite e servizi prodotti in Italia per un valore di circa 500 miliardi finiscono sul mercato estero, contribuendo significativamente alla formazione del Pil. E del reddito nazionale.

Siamo arrivati al dunque. L’economia italiana crescerà più del previsto nel 2017 (parliamo comunque di un 1,3%, che ci colloca agli ultimi posti in Europa), ma a trainarla non sarà la politica monetaria di Draghi, né quelle di bilancio del governo, come lascia intendere Moody’s, bensì le esportazioni, a loro volta trainate dai bassi salari.
Crescita senza equità, senza maggiore benessere per i cittadini, insomma. Come, peraltro, dimostrano anche i dati che provengono dal mercato del lavoro: disoccupazione ancora troppo alta (11,3% a luglio, giovanile al 35,5%, in aumento, secondo l’ultima rilevazione dell’istituto di statistica), ben oltre la media europea (7,8% ad aprile), qualità del lavoro sempre più bassa, stanti le cifre allarmanti sulla precarietà.

La ricchezza aumenta, ma è per pochi. L’ultimo rapporto Oxfam, la confederazione
internazionale di organizzazioni non profit aventi come mission il contrasto alla povertà nel mondo, ha stimato che in Italia, nel 2016, l’1% più ricco (poco meno di 300 mila famiglie) era in possesso del 25% della ricchezza nazionale netta. Una tendenza che va consolidandosi, il risultato di una precisa strategia di politica economica, tesa a rifondare la nostra economia, svalutando il lavoro, smantellando il welfare.

Ma «la nave va…», e questo e solo questo è per il governo e mediaticamente l’importante.