Donald Trump si è visto costretto ad abbandonare la richiesta di fondi immediati per costruire il muro alla frontiera con il Messico, spesa che non sarà inserita nella manovra di aggiustamento di bilancio. La decisione è arrivata dopo la minaccia dei democratici di bloccare la legge se il denaro fosse stato destinato alla recinzione.

«Questo muro si farà» ha dichiarato Trump mentre cancellava la voce dal bilancio, e Kellyanne Conway, consulente del presidente, a Fox News ha confermato che comunque il muro rimane una «priorità molto importante».

Di diverso parere Luis Videgaray, ministro degli Esteri messicano, che durante un incontro con i parlamentari, ha dichiarato che il Paese non darà un centesimo per la costruzione del muro aggiungendo che questa ipotesi architettonica «non solo è una cattiva idea», ma un’«azione ostile».

Trump ha precisato che il progetto, cavallo di battaglia della sua campagna elettorale, non si ferma: «Non fatevi dire dai media fasulli che ho cambiato idea sul muro. Sarà costruito e fermerà droga e traffico di esseri umani», ha twittato.

Il fatto è che questa voce esiste solo nella retorica di Trump, nel bilancio non c’è e nessuno può imporre al Messico di costruire un muro a spese proprie, come Trump ripeteva ad ogni comizio.

In tre mesi di presidenza aggressiva in realtà Trump non è riuscito a portare a termine i suoi propositi nonostante abbia dalla sua Camera e Senato, un potere teoricamente illimitato, ma che deve vedersela con altre opposizioni: quella dei giudici, dell’opposizione locale e dei cittadini americani che stanno mantenendo la promessa fatta dopo la sua elezione, e scendono in piazza rumorosamente ogni settimana per esprimere il proprio dissenso.

In questo modo il MuslimBan è stato ritirato e cancellato, a seguito di un’azione della Aclu, l’associazione per la protezione legale dei diritti civili, e delle sentenze di svariati giudici che ne hanno determinato l’illegalità, e così anche il nuovo decreto che avrebbe tagliato i fondi per le città santuario, città che proteggono gli immigrati irregolari dal rimpatrio forzato e si oppongono all’applicazione delle norme anti-immigrazione, ha subito uno stop. William Orrick, giudice federale di San Francisco, ha infatti bloccato il decreto

«I fondi federali che non hanno nessuna relazione significativa con l’applicazione di politiche migratorie – si legge nella sentenza – non possono essere messi a rischio solo perché una giurisdizione sceglie di mettere in atto una strategia sulla politica migratoria che il presidente non approva». In queste frasi c’è il senso di ciò che sta accadendo e che mostra gli anticorpi democratici sopravvissuti al virus Trump.

Città come San Francisco, New York, Chicago, Seattle, così come gli Stati che non concordano con le politiche di questa presidenza, vedono le proprie amministrazioni battersi contro le leggi federali sull’immigrazione, usando tutti gli strumenti legali possibili per garantire sicurezza ai propri cittadini «legali o meno», come non si stancano di ripetere sindaci, assessori e governatori di questi luoghi.

Bill De Blasio, sindaco di New York, la città di Trump, immediatamente dopo la sua elezione si è recato alla Trump Tower per ribadire i principi di inclusione con cui avrebbe continuato a governare la città, e non c’è manifestazione di immigrati alla quale non partecipi, arrivando ad indirne una delle più partecipate, proprio sotto la Trump Tower.

Il governatore dello stato, Cuomo, ha riservato una parte consistente del budget per garantire una rappresentanza legale per gli illegali che rischiano la deportazione e che non avrebbero diritto ad un avvocato di ufficio.

Forse, visto che tutto sembra andare per il verso sbagliato, Trump ha allora deciso rivolgersi altrove, verso il Canada, imponendo una tariffa doganale sino al 20% sull’import di legname canadese da costruzione, colpendo un giro di affari di circa 5 miliardi di dollari e minacciando di fare altrettanto contro i prodotti lattiero-caseari.