Si chiama Crazy For Football ed è un documentario a firma di Francesco Trento e Volfango De Biasi, con quest’ultimo impegnato anche nella regia. È una storia inconsueta e fuori dai cardini della cinematografia ordinaria: protagonisti 12 pazienti psichiatrici che lo scorso febbraio hanno affrontato a Osaka, Giappone, una sfida di primo livello indossando la maglia della nazionale italiana di calcio ai mondiali per persone affette da problemi mentali, un sogno inimmaginabile fino a qualche anno prima.

Una storia che parla di alterità sociale e sportiva. La pellicola è stata presentata domenica alla Festa del Cinema di Roma ma molte persone sono rimaste fuori e così ieri pomeriggio si è resa necessaria un’ulteriore proiezione alla Casa del Cinema. Crazy For Football racconta di un ex campione del mondo di pugilato come Vincenzo Cantatore che si ritrova ad essere preparatore atletico della squadra, dell’allenatore Enrico Zanchini fondamentale trascinatore e di Santo Rullo, psichiatra presidente della associazione italiana di Psichiatria Sociale. Il quale ci racconta come si è arrivati a questa idea, che ha una genesi lontana: «Dopo tanti anni passati a proporre esperienze di vita quotidiana ai pazienti psichiatrici come opportunità di recupero della propria funzionalità abbiamo pensato che il sogno di partecipare a una coppa del mondo fosse un’esperienza pazzesca nel senso figurato del termine. Da qui anche il titolo. D’altronde che lo sport faccia bene alla salute non è una novità, che faccia bene alla mente anche… Come ci conferma l’esperienza comune di ognuno di noi, che per i motivi più vari è costretto ad interrompere il rito della partita di calcetto settimanale o la piscina o la palestra, sperimentando astinenza o depressione. Quindi proporre lo sport come attività di tutela della salute mentale per persone con disagio psichico ci è sembrata forse scontato, ma efficace».

Viene da chiedersi come mai lo sport non sia prassi comune di intervento nei servizi di salute mentale, visti i buoni risultati. Ancora Rullo: «Forse perché la persona sofferente di un disturbo mentale si ritrova a perdere il diritto al lavoro, il diritto a un’abitazione adeguata, il diritto a cure efficaci, fino al diritto ad attività ricreative e sportive. Questo succede perché l’isolamento sociale che consegue alle difficoltà psicologiche del paziente psichiatrico mette la persona in fuorigioco, ai margini della vita. Come un giocatore in offside, che non si accorge di esserlo fino a che non si alza la bandierina. Purtroppo lo stigma della malattia mentale è una barriera culturale ancora difficile da valicare».