Caduta nell’infinito è una delle tele più tarde di Tullio Crali, dipinta nel 1987, a settantasette anni: un corpo di donna si trasfigura in una nuvola che lo scompone e l’avvolge, mettendone in rilievo, in piena luce, i particolari, come nella contorsione di un feto rannicchiato o di un esperimento cubista. La tela attrae e disturba, perché i particolari (l’ombelico al centro, un ginocchio, un seno e la bocca a ruotargli intorno) sono tutti rivolti alla seduzione, ma la fisicità è come negata, trasposta in una dimensione lirica e circonfusa da un’aura onirica. Sintetizzando il percorso di una vita, Crali si muoveva su un crinale delicato: da un lato la sfida al cielo, che l’aveva sempre attratto, dall’altro la fascinazione della materia, con cui ha avuto un rapporto per lo più conflittuale.
Fin dal suo primo capolavoro ufficiale, cioè con l’ambizione a essere tale e col riconoscimento della critica, Le forze della curva, del 1930, Crali aveva puntato a rappresentare il movimento come sintesi del tutto, metafisica cattura dell’essere al di là delle coordinate spaziotemporali, fotografica e concettuale riduzione della vita a forma, nel paradosso futurista di riprodurre e fissare insieme il flusso incessante del moto: fasce di colore bianco, rosso e nero, mescolate in altre fasce di diverse gradazioni lungo lo stesso spettro cromatico, scomponevano una macchina da corsa in curva sull’asfalto della pista, fino a guidare lo sguardo a destra, oltre la tela, dove la macchina del suo idolo, il pilota Pietro Bordino, che l’aveva ispirata, è ormai sparita alla vista dello spettatore, eppure assorbita, idealizzata ed eternata in quella scia che l’ha resa trionfo di colore e luce dal dinamismo elettrico.
Entrambi i dipinti, a marcare i poli di una lunga fedeltà al futurismo, si possono ammirare ora nella mostra Tullio Crali. A Futurist Life alla Estorick Collection di Londra (fino all’11 aprile; catalogo a cura di Christopher Adams e Barbara Martorelli, pp. 112, con bellissime tavole a colori e riproduzione di vari manifesti, £14.50). Fedele alla sua missione di rivalutare il periodo più controverso dell’arte italiana del Novecento, esplosione di vitalità creativa, ma anche macchiato dall’abbraccio letale col regime, la Estorick, con l’aiuto della famiglia Crali e il sostegno dell’UK Government Indemnity Scheme, rimette al centro dell’attenzione critica colui che probabilmente è stato, più di Marinetti, Boccioni o Carrà, il futurista per eccellenza, nato, come lui stesso sottolineava, nel 1910, l’anno del Manifesto dei Pittori Futuristi, e accolto nella compagnia nel 1929, l’anno del Manifesto dell’Aeropittura. Contento come un bambino che si senta accolto nel mondo dei grandi, lo diceva prima di tutto alla mamma, provando una felicità che avrebbe rivissuto, è sempre lui a dirlo, solo nel giorno del matrimonio (nel 1940, con Ada Savelli).
Tutto tranne che una personalità ribelle, potrebbe ricavare uno psicoanalista da questa testimonianza in prima persona. In effetti Crali fu incline all’ordine più che alla contraddizione, al punto da divenire un allineato seguace di quell’aeropittura che aveva il suo antecedente letterario in Le monoplan du Pape di Marinetti (da cui discesero le aeropoesie di Buzzi, Folgore e Carli) e i suoi modelli nell’aeropittura di Azari, Dottori e Somenzi (fino a Tato, Marasco, Prampolini, Fillia e Oriani, tutti suoi compagni di strada). Epigonale Crali fu sempre, affezionato e scodinzolante nei confronti di Marinetti, fino a venirne incaricato di proseguire l’attività del futurismo oltre il fascismo e la guerra. Eppure, anzi forse proprio per questo, Crali diventa l’emblema della lunga durata del futurismo stesso, come la mostra mette benissimo in rilievo, con la sua retorica avanguardistica d’impronta romantica e la sua contraddizione estetica tra vitalismo e metafisica: il futurismo è una forza interiore, proclamava per spiegare la sua tenace e incorruttibile fiducia, cui si può solo aderire, indipendentemente dal movimento che lo interpreta, che infatti crollava a pezzi dopo il fascismo.
Tradizionalmente associato con il regime, di cui promuoveva l’anima bellicista e la propaganda nazionalista con i suoi dipinti di fine anni trenta e inizio Quaranta (le aeropitture per cui soprattutto è famoso, «matematica trascendentale» nella definizione di Maurizio Calvesi), Crali firmava insieme a Marinetti il manifesto Illusionismo plastico di guerra e perfezionamento della terra del luglio 1942, dove si esaltava il camouflage come strumento per ingannare i piloti nemici, turbandoli con visioni «di urbanismi velocizzati terremotati miraggi di paesaggi balzanti all’insù servendosi delle astuzie pittoriche offerte dal dinamismo boccioniano manipolate dalla nostra esperienza aeropittorica», dove non sorprende l’insistenza su astuzia e manipolazione. Proprio il suo attivismo movimentista lo rendeva tuttavia inviso agli occupanti nazisti di Gorizia tra il 1944 e il 1945, tanto che il suo nome fu inserito in una lista di elementi sovversivi da deportare: si salvò grazie all’intervento di un amico potente, ma finì tra i sospetti dei nuovi occupanti di Gorizia, le forze jugoslave di Tito, che lo imprigionarono per alcuni mesi nel 1945 come collaborazionista fascista. «Il mimetismo richiede immaginazione, ma questo disturba la mentalità militare», riconoscerà in seguito.
Fu proprio la delusione politica dopo la caduta del regime e la fine della guerra a portarlo a un’idea di futurismo come ricerca sperimentale del nuovo al di fuori di ogni militanza nell’attualità: un futurismo sempre più romantico, appunto, che si esaltava nella riscoperta della natura, opposta all’uomo come forza stabile e positiva di contro al carattere manipolatorio e ingannevole dell’intelligenza. Di qui nasceva la sua esperienza più interessante, che si può chiamare «postfuturista», di un futurismo ideologicamente depurato ed esteticamente orientato, che sorge dal futurismo, ma lo corrode dall’interno per oltrepassarlo in una direzione simbolista: i Sassíntesi, dove i sassi interpretano la sintesi tra materia, colore e luce. Crali era già stato, infatti, tra i grandi esploratori di materiali in altre forme artistiche, dalla moda all’architettura e al design, fin dagli anni trenta: con i Sassíntesi produceva collages di roccia su tela che ambiscono ad «accostarsi all’intimo della natura, intendendone le forze e organizzandole secondo un proprio modulo per cercare nuovi mondi poetici», come scriveva nel suo manifesto del 1959 sulla «parola creata con sensibilità plastico naturista da Ada Savelli agilissima nel passare dalle invenzioni di cucina futurista in omaggio all’amico poeta Marinetti alle sorprendenti scoperte della materia in lotta da milioni d’anni con peso e tensioni».
A lui si deve anche l’ultimo manifesto futurista, Arte orbitale (1969), col suggerimento di portare l’arte «fuori del pianeta» e la tensione verso «sfilate-esposizioni rotanti d’immensi complessi polimaterici a gloria dell’arte e della scienza». Nella sua celebrazione del buco come il «momento anarchico di una superficie», in un bellissimo pannello del 1971 che esplora le varianti tematiche di una parola-concetto, à la Munari, si rivela l’artista più grafico che pittorico, più ludico che militante, che in fondo sempre fu, perché il suo futurismo è fiducia nell’appartenenza alla famiglia e voglia di ridisegnare i confini del mondo. Un libretto di caricature dei compagni futuristi conclude la mostra, a certificare questo senso di comunione che lo rendeva ostile agli opportunismi d’occasione e rivolto a un’ideale adolescenza perenne.