In un paesino delle Alpi Carniche, qualche settimana fa un’anziana signora ripuliva dalle erbacce il suo campo, nei pressi di casa sua. Era sola nel prato e del resto non c’era anima viva a portata d’occhio, fatto del tutto normale in una zona montana il cui problema principe è la solitudine dello spopolamento, non le insidie epidemiche dell’affollamento.

La signora è stata avvistata da una macchina di pattuglia. Ne è sceso un vigile urbano, che si è arrampicato su per la scarpata, urlando alla donna di tornare subito a casa, pena una salata sanzione pecuniaria (prevista per l’infrazione di uno dei tanti Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri contro l’epidemia di coronavirus).

In una cittadina del Cremonese, mentre un parroco celebrava in chiesa la messa insieme a tredici fedeli, un carabiniere è salito sull’altare con un telefono in mano, intimando al celebrante di interrompere il rito e di rispondere al telefono: all’altro capo del filo c’era il sindaco, desideroso di comunicare di persona al parroco l’ordine di sospendere la messa (in forza del Dpcm antipandemia del 29 marzo).

Il parroco, Don Lino, è diventato famoso perché l’irruzione del carabiniere è stata ripresa e trasmessa su molti canali televisivi. E anche perché non si è fatto intimorire e ha continuato a dire messa, ingaggiando poi una battaglia legale sull’interpretazione del decreto.

Molto si potrebbe dire nel merito delle singole limitazioni, specie su quelle che vietano ai fedeli di presenziare alla messa, appena riconfermate, con non poche polemiche, nell’ultimo Dcpm sulla fase 2. Non è questo che qui mi interessa.

Ciò che mi ha colpito nei due episodi (peraltro differenti in molti aspetti), è l’eccesso di zelo, per non dire la tracotanza, di chi quelle norme deve farle rispettare. Che cosa spinge un giovane vigile urbano a umiliare un’anziana donna rimbrottandola come una scolaretta? Una donna che con ogni probabilità conosce, visto che in un paesino di mille anime si conoscono tutti. Una donna che certo non minacciava la propria e l’altrui salute zappando l’orto in solitudine.

E di quale missione salvifica si è sentito investito il carabiniere per brandire sull’altare quel telefono, a mo’ di inedito (e ridicolo) bastone d’autorità? Ho raccontato questi due fatti, ma di altri simili sono a conoscenza.

Da qui la conclusione: norme straordinarie, che incidono sulle libertà personali in nome di un’emergenza con la E maiuscola, come quella della salute, chiamano “naturalmente” all’eccesso nell’esercizio di autorità: che si manifesta «in alto», a livello dei macropoteri (ad esempio nel ricorso ripetuto e improprio ai Dcpm ), fino ad arrivare «in basso», ai «micropoteri» che presiedono all’applicazione delle norme: portati a indulgere a quel piacere in più che nasce da quel potere in più sui cittadini/e.

Molto si è scritto a difesa delle norme di confinamento in casa e di divieto di varie attività, in quanto non anticostituzionali. Bene, a patto però di sottolineare la loro assoluta «eccezionalità». Tenerla a mente, da parte di ognuno/a di noi, tenerla viva nel dibattito pubblico anche da parte di chi quelle norme ha emanato, è l’unico argine a difesa delle nostre “normali” libertà, per il dopo coronavirus. Magari allora il vigile abbasserà la voce e il sindaco rimanderà la telefonata.

Le misure straordinarie che obbligano i cittadini all’isolamento sociale hanno un altro limite. Non li educano ai corretti comportamenti negli scambi sociali, che, seppur ridotti, dovranno pur riprendere, nella fase 2 o 3 o 4. In ogni modo, lo scenario futuro in attesa del vaccino si giocherà sulla capacità di ognuno/a di padroneggiare la propria salute.

Se invece dell’ossessivo “resta a casa”, si informasse meglio sui rischi relativi alla permanenza del virus sulle superfici, o su come utilizzare in maniera propria le mascherine, ne risulterebbe un beneficio alla salute pubblica.