30 decessi e 201 casi positivi al Coronavirus in più nelle ultime 24 ore. Il contagio dunque non si arresta benché i numeri rimangano contenuti. Scendono a 87 i pazienti in terapia intensiva, sono meno di mille (963) i ricoverati non gravi. In tutto, finora si sono registrati 34818 vittime e 240961 casi positivi.

OLTRE IL 12% DEI CASI ha riguardato gli operatori sanitari, contagiati in quasi 30 mila. Non è una sorpresa: nelle strutture sanitarie, dove sono stati effettuati tamponi in maniera sistematica, sono emersi molti casi asintomatici, e la mancanza di dispositivi di protezione ha esposto gli operatori sanitari ad un rischio più elevato. Ma la percentuale di operatori sanitari contagiati sul totale dei casi non è calata, con la normalizzazione della situazione epidemiologica. Lo evidenzia l’ultimo rapporto della Fondazione Gimbe, che per tutta l’epidemia ha svolto un meritorio ruolo di controinformazione basata sui dati.

I NUMERI DELLA FONDAZIONE parlano chiaro: anche dopo il 4 maggio, dei 28640 casi positivi accertati, 7596 (il 26,5%) si riferivano a operatori sanitari. Un dato eccessivo che meriterebbe qualche spiegazione in più dalle autorità sanitarie, secondo il presidente Nino Cartabellotta: «È possibile che mesi dopo l’inizio dell’epidemia non siamo ancora in grado di garantire agli operatori sanitari il massimo livello di protezione con adeguati dispositivi di protezione individuale e protocolli di sicurezza? O questi numeri devono essere piuttosto interpretati alla luce della massiccia attività di testing condotta su questa categoria professionale, che ha permesso di identificare un numero molto più elevato di positivi rispetto alla popolazione generale?».

AI DATI UFFICIALI, per altro, mancano quelli dei medici di medicina generale («di famiglia»), che lavorando al di fuori delle strutture ospedaliere non vengono inclusi in queste statistiche. Per i medici di base adesso c’è anche un’ulteriore beffa: a differenza dei loro colleghi ospedalieri per i quali l’infezione da Covid è equiparato a un infortunio sul lavoro, per loro non ci saranno indennizzi nemmeno in caso di morte. Eppure, sono stati 57 i medici di base morti di Covid, più di ogni altra categoria.

LA DISPARITÀ NASCE dal diverso regime di lavoro: i medici ospedalieri sono lavoratori dipendenti e in quanto tali direttamente coperti dall’Inail, che assicura i lavoratori dipendenti; i medici di base sono liberi professionisti in convenzione e contrattano con le assicurazioni private o con l’Enpam le prestazioni assicurative.

Finora, i medici di medicina generale hanno conservato gelosamente il loro status di liberi professionisti della sanità privata. Ma la pandemia ha mostrato tutti i limiti di questa organizzazione della sanità territoriale, soprattutto in Lombardia: scarso coordinamento tra agenzie sanitarie e medici, mancanza di protezioni per i medici di base, povertà dell’assistenza domiciliare che ha riversato sugli ospedali un’ondata insostenibile di malati.

IL DISASTRO HA RIPORTATO di attualità un tema finora ritenuto un tabù: la trasformazione dei medici di base in dipendenti del Servizio sanitario nazionale. È una proposta osteggiata dalla Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale (il sindacato dominante nella categoria) ma che trova un crescente supporto tra i camici bianchi. «Noi in linea di massima non siamo contrari, anche se ci sono difficoltà. Facciamo una proposta intermedia: iniziamo a far diventare dipendenti i medici del 118, e per gli altri stipuliamo un contratto nazionale unico nel quale si stabiliscono orari di lavoro e tutele da lavoratori dipendenti per i medici di base che rimarrebbero comunque liberi professionisti», propone Francesco Esposito, segretario della Federazione italiana sindacale dei Medici uniti (che con Cgil, Cisl e altre sigle ha dato vita al cartello di «Intesa sindacale»).

«Serve un lavoro culturale, molte organizzazioni non vogliono perdere fette di potere. Ma la risposta alle pandemie può venire solo dalla medicina territoriale, che individua, isola e tiene a casa l’ammalato. Veneto e Emilia-Romagna, dove la sanità territoriale è più forte, hanno avuto meno problemi della Lombardia».