È stata una fortuna per Jair Bolsonaro che la 75.ma Assemblea generale delle Nazioni Unite sia stata organizzata, causa Covid, in versione in gran parte online, attraverso video preregistrati. Una volta tanto, l’aborrito distanziamento sociale gli ha fatto gioco, risparmiandogli le contestazioni di cui l’anno scorso era stato oggetto appena aveva messo piede a New York e la palpabile freddezza con cui viene sempre accolto nei vertici internazionali. Di sicuro la musica sarebbe stata la stessa anche quest’anno.

Con 4,5 milioni di contagi e oltre 137mila morti, Bolsonaro ha avuto l’ardire di attribuire al proprio governo un’esemplare gestione della crisi sanitaria, insieme al merito di aver salvato il paese dal caos sociale. Quello a cui lo avrebbe senz’altro condotto una parte della stampa brasiliana, impegnata a politicizzare il virus «disseminando il panico tra la popolazione» con slogan come «restiamo a casa» e «all’economia pensiamo dopo».

Elencando le misure economiche adottate per evitare «il peggio», il presidente ha persino rivendicato l’assistenza a oltre 200mila famiglie indigene, benché il suo contributo al riguardo sia stato quello di svuotare il piano di emergenza approvato dal Congresso, annullando l’obbligo governativo di somministrare acqua potabile, di distribuire gratuitamente materiale sanitario e di assicurare posti di terapia intensiva alle comunità indigene, come pure di facilitare il loro accesso agli aiuti di emergenza.

Nella lista dei suoi meriti, poi, non poteva neppure mancare il ruolo dell’agribusiness, che avrebbe garantito la sicurezza alimentare a un miliardo di persone al mondo, per di più rispettando la presunta «migliore legislazione ambientale del pianeta». E malgrado ciò, secondo il presidente, il Brasile sarebbe vittima di una «brutale campagna di disinformazione sull’Amazzonia e il Pantanal», promossa da istituzioni internazionali e organizzazioni brasiliane «profittatrici e anti-patriottiche».

Mentre a causa dello smantellamento degli organi di controllo e dell’avanzata dell’agribusiness all’interno della foresta, il numero di incendi nei primi 15 giorni di questo mese risulta già superiore a quello dell’intero settembre 2019, Bolsonaro ha liquidato la questione scaricando la responsabilità dei roghi sugli indigeni – che, «per sopravvivere», appiccherebbero il fuoco nei loro campi «in aree già deforestate» – e rivendicando una inverosimile «politica di tolleranza zero» nei confronti dei crimini ambientali.

E mentre, in questi primi otto mesi dell’anno, il Pantanal ha registrato l’equivalente dei roghi divampati dal 2014 al 2019, il presidente ha dato la colpa all’«alta temperatura locale, insieme all’accumulo di massa organica in decomposizione».

L’ultima menzogna, però, Bolsonaro l’ha riservata al Venezuela (definita «dittatura bolivariana»), accusata senza alcuna prova di aver provocato lo sversamento di petrolio che lo scorso anno ha inquinato oltre 2.250 chilometri di litorale nordestino.