Secondo uno studio del King’s College di Londra, le persone guarite dal nuovo coronavirus potrebbero non essere protette a lungo dagli anticorpi sviluppati. Lo studio non è ancora stato valutato da una rivista specializzata ma gli autori lo hanno già pubblicato sull’archivio MedrXiv, come stanno facendo molti scienziati per diffondere rapidamente le scoperte potenzialmente utili nella lotta al Covid-19.

I RICERCATORI, coordinati dall’immunologa inglese Katie Doores, hanno monitorato per tre mesi la quantità di anticorpi presenti nel sangue di 65 adulti che hanno contratto il virus. Secondo i dati raccolti, gli anticorpi raggiungono un valore massimo 30-60 giorni dopo l’infezione per poi iniziare a declinare. A tre mesi dal contagio, il livello di anticorpi risulta mediamente circa dieci volte inferiore rispetto al picco. Il calo è più marcato nei pazienti in cui l’infezione ha causato sintomi lievi. Secondo gli autori, «la breve durata della risposta immunitaria potrebbe essere una caratteristica comune alle infezioni meno gravi da Sars-cov-2 e ai Coronavirus stagionali associati ai comuni raffreddori». A un’analoga conclusione erano giunti i ricercatori cinesi dell’università di Chongqing in una ricerca pubblicata sulla rivista Nature Medicine a giugno.

SE CONFERMATA, la diminuzione degli anticorpi pochi mesi dopo l’infezione avrà notevoli conseguenze sulla risposta alla pandemia. In primo luogo, anche chi è guarito dal Covid-19 potrebbe riammalarsi a pochi mesi di distanza. Raggiungere l’immunità di gregge diventa quindi molto più difficile, anche perché un eventuale vaccino richiederà frequenti richiami. Infine, la scoperta rende più complicati gli studi sierologici: persone che si sono effettivamente ammalate potrebbero risultare prive di anticorpi dopo un certo tempo e risultare «false negative» al test.

TUTTAVIA, LA RICERCA del King’s College va interpretata con una certa cautela. «È uno studio preliminare, su un numero relativamente piccolo di individui seguiti per un periodo di tempo limitato e senza alcuna informazione sulla risposta a una seconda esposizione al virus», avverte Jonathan Stoye, virologo all’inglese Francis Crick Institute. «Ma ha notevoli implicazioni riguardo all’immunità e allo sviluppo di un vaccino. Inoltre, ci spinge a raddoppiare gli sforzi per identificare e sviluppare nuove terapie, sia usando farmaci conosciuti che con nuove molecole».

MENO PESSIMISTA l’immunologa Mala Maini dello University College di Londra, secondo cui lo studio non dimostra la totale assenza di immunità. «Anche senza anticorpi in circolazione, un’immunità protettiva potrebbe permanere grazie alla memoria immunologica dei linfociti B e T, in grado di dare vita a una nuova risposta immunitaria in caso di un nuovo incontro con il virus e indebolire l’infezione», sostiene Maini. «Nel caso della Sars, le cellule T permangono molti anni più a lungo degli anticorpi e dobbiamo capire se ciò accade anche con il Covid-19».

«GLI ANTICORPI RESIDUI potrebbero bastare a garantire protezione dal Covid-19 per un certo periodo», ammettono anche gli autori dello studio. «Serviranno studi ulteriori sugli stessi pazienti per determinare la longevità della risposta immunitaria». Prudenza obbligata: è impossibile al momento valutare l’impatto a lungo termine di un virus scoperto pochi mesi fa. Ma lo studio di Doores e colleghi è attualmente uno dei più solidi in circolazione.