La storia (fuoricampo) inizia qualche tempo prima, nel 2005, quando Nikolai Khalezin, giornalista e drammaturgo, e sua moglie Natalia Kolyada, produttrice teatrale – a cui si aggiunge poi il regista Vladimir Shcherban – fondano a Minsk il Belarus Free Theatre, che già dal nome – Teatro Libero di Bielorussia – dichiara il suo obiettivo: opporsi pacificamente alla censura e alla repressione messe in atto dal regime di Lukashenko. La loro «arma» è appunto il teatro che praticano clandestinamente, con spettacoli in luoghi segreti, all’aperto, nei boschi, in case private, avvisando gli spettatori poco prima – e spesso costretti a cambiare all’ultimo momento in modo da sfuggire alla polizia.

ALLE PROTESTE nel 2010 per la riconferma con elezioni farsa di Lukaschenko (quarto mandato da presidente, una vittoria per la quale si parlava con insistenza di brogli) il regime risponde con ferocia: centinaia di arresti, perquisizioni, violenze, omicidi. Shcherban e gli altri del Belarus si rifugiano a Londra, ma Nikholai Khalezin e Natalia Kolyada prima vengono arrestati e si teme per la loro sorte fino al rilascio su cauzione. Raccontava allora Kolyada: «Mio marito, mia figlia e io siamo stati aiutati dai nostri amici a lasciare clandestinamente la Bielorussia … Mai avremmo immaginato che non saremmo più tornati a casa. Mai avremmo immaginato che ogni volta che incontravamo leader politici come Hillary Clinton o Nick Clegg per chiedere di imporre sanzioni economiche al dittatore, avrebbero fatto irruzione in casa dei nostri genitori. Non avremmo mai più rivisto mio suocero, lui non ha retto a tutti gli agguati del Kgb, è morto d’infarto. Non immaginavamo che i servizi speciali avrebbero cercato di mettere nostra figlia in un orfanotrofio per impedirci di parlare. Il nostro amico Andrei Sannikov candidato dell’opposizione alle elezioni presidenziali è stato malmenato e torturato dalla polizia; hanno steso i loro scudi sulle sue gambe e hanno cominciato a saltarci sopra … Hanno arrestato anche sua moglie Irina e minacciato di mettere il loro figlio di quattro anni in orfanotrofio. Andrei comunicava scrivendo favole per suo figlio. Ogni volta che Irina riceveva una di queste, sapevamo che le torture erano o state sospese. Sono quattro mesi che non riceviamo più le sue favole».
Eppure non si sono fermati, e a distanza hanno continuato a fare il loro teatro politico e di opposizione con l’arrivo di nuove attrici e nuovi attori, delle generazioni più giovani che vogliono uscire dall’incubo di questa orrenda dittatura come gli altri che nei mesi scorsi hanno manifestato occupando le strade del Paese, repressi con la violenza e gli stessi metodi di sempre: terrore, tortura, negazione dei diritti civili e umani.

TUTTO questo ci porta a Courage, il film di Aliaksei Paluyan, anche lui bielorusso – ma dal 2012 in Germania – nel quale ritroviamo il Belarus Free Theatre oggi, in particolare tre dei suoi attori, Maryna, Pavel e Denis, che vivono in Bielorussia e che hanno lasciato il teatro di stato di Minsk per unirsi al gruppo. Al tempo stesso il film – che dopo l’anteprima alla scorsa Berlinale ha circolato in molti altri festival, e ora è stato presentato nel programma del Biografilm di Bologna e in quello di Sheffield doc festival – ci parla degli ultimi accadimenti in Bielorussia, degli attacchi sempre più duri del regime contro i dissidenti.
Le giornate dei tre protagonisti, di chi come Maryna esce di casa salutando il figlioletto piccolo con un bacio senza sapere se tornerà, si intrecciano dunque a una dimensione collettiva: un respiro che unisce i cittadini bielorussi in quei giorni di mobilitazione – molto emozionante la scena nella quale alcuni dei militari schierati contro i manifestanti si tolgono i caschi e li abbracciano. L’abbiamo vista, è vero, anzi ha fatto il giro del mondo eppure commuove: cosa c’è di diverso qui? A cambiare è il punto di vista: i fatti riportati dalle cronache a distanza divengono nelle immagini di Paluyan un vissuto accanto al quale siamo anche noi. Scopriamo cosa significa essere in uno stato costante di incertezza, non sapere mai se si riuscirà a rientrare, se non si verrà arrestati. E che vuol dire quando qualcuno vicino, che si ama, scompare senza che si sappia più nulla, inghiottito nel vuoto, nel buio. Lo leggiamo sui volti di chi attende fuori dal carcere, di chi scruta le liste coi nomi di quelli che saranno liberati, nei momenti di stanchezza di Maryna, nella preoccupazione ogni volta che iniziano a lavorare al loro spettacolo al Teatro Libero di Minsk. «Ho voluto fare un film che mostrasse la verità sulle vite dei tre attori teatrali e sul loro lavoro, ma anche su quello che la gente in Bielorussia sente e sogna in questo momento. Il popolo bielorusso ha bisogno dell’attenzione e del sostegno del mondo, ora e in futuro» ha detto Paluyan.

IL QUOTIDIANO di mobilitazione si alterna con le prove e alcuni momenti in scena: il regista Khalezin si collega da Londra, i mezzi a disposizione sono pochi, il nuovo spettacolo è rischioso visto che parla della sorte degli oppositori politici di Lukashenko. E però il loro non è solo un teatro «dimostrativo», la dimensione politica fa parte della vita, l’arte del quotidiano. È questa la loro scelta, è questo il senso della loro pratica teatrale: essere uno spazio pubblico, della collettività. Una scommessa che il regista raccoglie, e prova a restituire nel suo Courage dando voce a sua volta a quel pezzo di Paese che non si arrende, a un sentimento artistico che è un gesto di resistenza.