Quando in chiusura di conferenza stampa ha preso la parola Monsieur Boetsch, responsabile della comunicazione Rolex e orgoglioso main sponsor della Biennale Architettura, una lampadina si è accesa da qualche parte, come una piccola bruciatura interna. Non c’è voluto molto per capirne il motivo: la storia dell’architettura moderna si era aperta poco più di un secolo fa nello studio di un signore che insegnava a decorare casse di orologi svizzeri e che convinse Le Corbusier a diventare architetto e si conclude oggi, o perlomeno nelle intenzioni di Rem Koolhaas cerca un punto fermo, in una mostra robustamente sostenuta dal mecenatismo di un’altra marca di orologi svizzeri, solidamente impegnata nel campo dell’architettura.

La mostra di Koolhaas è stata presentata ieri alla stampa con le sue molte novità: apertura più lunga, dal 7 giugno al 23 novembre come per l’arte; 65 padiglioni nazionali contro i 56 dell’ultima edizione (Chipperfield) uniti sotto un ombrello tematico molto vincolante; programma nettamente distinto tra Padiglione Centrale (ai Giardini) e Corderie, coinvolgimento diretto degli altri settori della Biennale (cinema, danza, musica, teatro); fittissimo programma di eventi e attività durante il lungo periodo di apertura.

Koolhaas intende marcare una cesura netta con le edizioni precedenti e ha fatto tutto il possibile per farlo capire. Insiste soprattutto su tre aspetti: una mostra di architettura e non di architetti (la platea lo interpreta come un «no alle archistar»); una mostra di ricerca e non di «display»; un periodo di apertura più lungo per offrirsi a un pubblico più ampio, certamente, ma anche per far sì che i temi proposti dalla rassegna possano «crescere e modificarsi» nella discussione che si svilupperà al suo interno.

Fundamentals, per una volta, ha una struttura chiara e differenziata. Al Padiglione Centrale l’unica mostra prodotta direttamente dal curatore, una specie di director’s cut, dedicata agli Elements of Architecture. Alle Corderie una novità assoluta, Monditalia, con una rassegna/sequenza dedicata dal curatore alle «cose italiane» e affidata a un partner italiano dello studio OMA. Nei padiglioni nazionali Absorbing Modernity, vale a dire uno sguardo su come i singoli paesi hanno assorbito i cento anni di modernizzazione architettonica (e qui ripartiamo da L’Eplattenier e Le Corbusier) attraverso il continuo Il curatore, supportato dal presidente Baratta, ha spiegato con pazienza e cura i contenuti delle singole sezioni. Soprattutto ha chiarito come gli «elementi» primari dell’architettura siano proprio i componenti semplici dello spazio costruito: porte finestre balconi tetti controsoffitti scale finestre corridoi camini eccetera. Sale iperallestite e trasformate in cataloghi abitabili dei singoli reperti, che devono servire agli architetti a riprendere coscienza del sapere essenziale del proprio lavoro e al pubblico italiano – lo ha ricordato Baratta – per rialfabetizzarsi nel campo dell’architettura. Monditalia è un dispositivo interessante, oltre che una opportuna macchina di consenso: una ventina di gruppi di architetti (in gran parte giovani e italiani) a investigare aspetti specifici della «tradizione» (moderna e non) italiana, non solo nel campo dell’architettura.

Il ritratto koolhaasiano del paese deve scaturire da questo collage e dalla successione di eventi, approfondimenti, spettacoli prodotti dagli altri settori della Biennale che occuperanno per i sei mesi di mostra le Corderie. Qualcuno tra i giornalisti presenti ha chiesto come fa un povero curatore italiano (Cino Zucchi) a fare un padiglione nazionale in queste condizioni, Koolhaas ha risposto che non c’è conflitto, anzi, il padiglione italiano racconterà le tappe della nostra modernità, le Corderie una specie di Atlante spaziale e concettuale che ognuno deve avere ben presente.

Il programma dei padiglioni, la storia dell’assorbimento della modernità, desta molto interesse, perché si tratterà per la prima volta di una serie di mostre unite da un filo logico chiaro e allo stesso tempo diverse e complesse. Rappresentano un potenziale asset molto importante per questa biennale. Il programma insomma è molto ricco e organizzato con una chiarezza non inaspettata in un architetto-pensatore come Koolhaas.

È ovviamente presto per lanciarsi in critiche o commenti, ma nel frattempo si può cominciare a confessare qualche reazione «a caldo» e provare a ipotizzare se sarà poi materia di discussione anche a mostra aperta. Prima di tutto il coinvolgimento importante dello studio OMA nella preparazione della mostra, per il coordinamento delle Corderie, per le ricerche sugli elementi e per tutta la parte di allestimento. Poi l’aria di sconfinamento della mostra nel campo della storia o di una specie di storiografia frammentaria ma a gettata molto ampia. È un tema delicato, trasformato ripetutamente in campo di battaglia nel recente passato. Visto che gli storici non riescono a costruire nuovi paradigmi di lettura per il Novecento, sembra suggerire il curatore, gli architetti possono cominciare a farlo per loro conto. Poi se ne potrà discutere. Poi lo sguardo all’indietro, il rischio di un senso di nostalgia che Koolhaas ha dribblato con grazia, ricordando che il suo sguardo si è rivolto a un secolo, Novecento, per il quale nessuno prova nostalgia.

Infine, l’insistenza sull’Italia, paese con poca e sparuta architettura ma con molta discussione sull’architettura, che è in genere bellissima da descrivere quando le si rivolge uno sguardo angolato e sintetico ma molto più ostica quando si prova ad affrontarne i problemi con l’ottica di doverli risolvere. Ma OMA e Rem Koolhaas per l’Italia hanno una passione sincera – corroborata da impegni professionali di cui alla biennale non vedremo traccia – che certamente li aiuterà in questo progetto.